La salute è ancora un diritto?

Il faticoso cammino verso una maggiore tutela della salute. Il razionamento in sanità, il ricorso al privato e lo scadimento della qualità dei servizi sono un rischio per il diritto alla salute; garantire tale diritto per gli infermieri consiste nel controllo sull’efficacia delle prestazioni, ma anche spostanre l’attenzione dal curare (to cure) al prendersi cura (to care).

Ada Masucci

L’esistenza di un diritto alla tutela della salute viene affermata nella Carta costituzionale all’articolo 32, ove si legge: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto individuale e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Dalla lettura della prima parte dell’articolo 32 si possono trarre alcune considerazioni importanti ai fini di una comprensione di questo diritto. Innanzitutto occorre dire che la cultura dei diritti come aspettative del cittadino a cui corrisponde un intervento attivo dello Stato per soddisfarle è un’acquisizione storicamente recente; infatti il diritto alla salute, come altri diritti per esempio quello all’istruzione fanno parte dei cosiddetti diritti sociali o di seconda generazione per distinguerli dai diritti liberali o di prima generazione che sono stati tra i primi ad essere enunciati nelle Carte costituzionali a partire dalla fine del Settecento in poi. Affinché un diritto possa affermarsi occorre che vi sia un contesto storico, culturale e politico, ed anche economico, che ne consenta l’espressione. Il riconoscimento della tutela della salute e della cura della malattia come diritto fondamentale avverrà tra XIX e XX secolo contemporaneamente all’estendersi del processo di industrializzazione e potremmo dire al passaggio di status delle persone più povere da mendico a lavoratore; infatti la nascita del welfare viene spesso ricondotta agli interventi normativi sostenuti da Bismarck nella seconda metà dell’Ottocento a tutela dei lavoratori in caso di incidente sul lavoro. Solo più tardi si assisterà lentamente e faticosamente ad una estensione dell’area e degli ambiti da tutelare: la vecchiaia, la maternità per le donne lavoratrici, ecc. In Italia questo processo, che è stato lungo, faticoso, e neanche indolore, è avvenuto più lentamente. Ancora nell’immediato dopoguerra, ricordiamo che la Costituzione italiana è stata approvata nel 1948, si può dire che erano mature solo in parte le condizioni culturali e politiche per l’affermazione di un diritto alla tutela della salute e ancor meno quelle economiche, tant’è che dovranno passare ancora 30 anni (è del 1978 l’approvazione della legge istitutiva del Sistema sanitario nazionale) prima che questo diritto, pur con molti limiti diventi realtà e non solo espressione di buone intenzioni. E’ interessante ricordare le parole di Norberto Bobbio a proposito dei cosiddetti diritti sociali: “nella nostra Costituzione le norme che si riferiscono a diritti sociali sono state chiamate pudicamente “programmatiche” cioè norme, come spiega Bobbio, che non impongono un qualcosa hic et nunc (qui e immediatamente), ma sono norme che possono essere rinviate senza termini precisi e affidate alla buona volontà di chi le deve attuare. A questo punto la domanda che ci si può porre è quanto sia corretto e appropriato parlare di diritti a proposito di tali norme, quando in effetti si tratta solo di proclami.
Ai fini di questa riflessione sono emblematiche due date: 1958 anno in cui viene istituito in Italia il Ministero della sanità e 1978 anno in cui, come già ricordato, viene approvata la legge 833 istitutiva del Ssn, nettamente in ritardo rispetto ad altri paesi come la Gran Bretagna che s’era provvista di un Ssn a partire dal 1948. Ha contribuito a questo ritardo l’arretratezza culturale in campo assistenziale nel nostro paese, infatti l’approvazione di leggi atte a tutelare la salute dei lavoratori e dei cittadini in genere incontrerà sempre degli ostacoli nella riottosità dei datori di lavoro a farsi carico degli oneri conseguenti e in una politica laissez faire della classe dirigente pronta a intervenire solo in vista di una gestione della sanità fruttuosa a fini elettorali e clientelari. Prima del 1978 non si può dire che agli italiani non fosse garantita l’assistenza sanitaria, ma questa era prestata da una miriade di enti, per nulla coordinati tra loro, tant’è che l’istituzione del Ministero della sanità verrà osteggiata dagli altri ministeri cui erano attribuite settoriali competenze nella gestione della sanità, vedi la medicina scolastica di competenza del Ministero dell’istruzione, l’assistenza ospedaliera di competenza del Ministero dell’Interno, ecc. Non solo, ancora alla fine degli anni Sessanta alcuni medici italiani erano dell’opinione che “il diritto alla salute è il diritto all’intelligenza quando si è nati idioti”[1] sostenevano cioè che la salute, come l’intelligenza, o uno ce l’ha o non ce l’ha e negavano pertanto l’esistenza di una componente sociale che, a vari livelli, può essere determinante nel condizionare lo stato di salute delle persone; va da sé che in una affermazione così forte nel sottovalutare gli aspetti sociali della salute sono impliciti un declino della responsabilità collettiva e dello Stato nella tutela del diritto alla salute e una delega al singolo a farsene carico; ad una visione estrema di questa posizione hanno aderito le filosofie neoliberiste con cui è stata gestita la cosa pubblica a partire dagli anni Ottanta in alcuni paesi occidentali, vedi l’Inghilterra della gestione di Margaret Thatcher; coerentemente con questa visione della politica il primo ministro inglese arriverà ad affermare che non esiste la società, ma esistono solo individui. Un’affermazione così radicale in campo sanitario può essere facilmente invalidata da una serie di osservazioni, in alcuni casi anche documentate scientificamente attraverso studi epidemiologici mirati. Sullo stato di salute degli abitanti di un paese incide molto di più come afferma Gianfranco Domenighetti la politica dei ministeri economici che non quello dello stesso Ministero della salute (o sanità); i ministeri dell’economia, del lavoro, dell’industria, ecc. possono a secondo degli indirizzi perseguiti e delle leggi sostenute incidere sullo stato di salute dei cittadini molto pesantemente. Ad esempio dai dati INAIL degli anni Novanta risulta che tra i cittadini italiani c’è una riduzione degli incidenti legati ai tradizionali rischi per la sicurezza sul lavoro riconducibile a una diminuzione negli ultimi anni del numero degli occupati nell’industria manifatturiera; dall’altra si osserva un aumento delle malattie da stress e da disagio sociale correlabile ad una precarizzazione del rapporto di lavoro[2]. Se invece si va ad esaminare che cosa succede tra i lavoratori extra-comunitari, in Italia si rileva “un tasso di incidenza infortunistica più elevato rispetto a quello medio nazionale (55,6% contro 43,2% per 1000 occupati). La spiegazione? I lavoratori extracomunitari sono notoriamente impiegati in attività più pericolose, legate alla mobilità, di tipo stagionale e svolte in aziende di minori dimensioni”[3]
Un dato storico che ormai fa parte della letteratura sanitaria è l’osservazione che i tassi di mortalità per malattie infettive hanno cominciato a diminuire sensibilmente a partire dalla metà dell’Ottocento, quindi decisamente prima dell’era degli antibiotici, e questo dato è stato messo in correlazione con il graduale miglioramento delle condizioni di vita, della qualità dell’alimentazione e della salubrità delle abitazioni. Il pensiero liberista “in campo sanitario si scontra con la semplice constatazione che la salute di ciascuno dipende da un insieme di circostanze sociali proprie della sanità pubblica: senza la potabilizzazione delle acque, le vaccinazioni, la regolamentazione delle emissioni industriali, ecc. saremmo tutti meno sani, compresi i ricchi”.[4]
Sono interessanti ancora altri aspetti, rilevabili sempre in momenti storici in cui è dominante una visione culturale estremamente individualistica; a fronte di una ridotta redistribuzione del reddito fa riscontro una polarizzazione delle condizioni economiche dei singoli e delle famiglie: chi è già ricco diventa sempre più ricco e chi è povero vede giorno per giorno peggiorare le proprie condizioni di vita; tutto questo naturalmente ricade sulle condizioni di salute delle persone in modo particolare di quelle meno abbienti: anziani a basso reddito, disoccupati, soggetti con basso livello di istruzione.
In momenti storici come questi, allo sfilacciarsi dei rapporti di solidarietà si accompagnano spesso una colpevolizzazione del soggetto affetto da una qualche malattia e un esercizio autoritario da parte dello Stato della tutela della salute, soprattutto quando si tratta di malattie facilmente stigmatizzabili perché legate a comportamenti disapprovati dai più o vissute come estremamente pericolose per la comunità. E’ ciò che si è verificato in passato verso i malati psichiatrici, i malati di tubercolosi ed è ciò che si propugna oggi per i soggetti tossicodipendenti. In conseguenza di ciò si assiste all’affievolirsi, se non addirittura al venir meno, della tutela di principi fondamentali come il rispetto della dignità della persona, il rispetto della libertà e all’inasprirsi delle forme di controllo fino alla istituzionalizzazione obbligatoria. Tutto ciò può sorprendere, ma non è poi così stupefacente se si pensa che le competenze in campo sanitario e in modo particolare sugli enti ospedalieri erano nelle mani del Ministero dell’Interno a partire dall’inizio dell’Ottocento e di fatto in Italia sono rimaste al Viminale fino al 1968, quando è stata approvata la legge di riforma ospedaliera n.132 del 12 febbraio 1968, nonostante il Ministero della Sanità esistesse già da 10 anni.
Ancora oggi in determinate situazioni è labile la separazione tra emarginazione sociale e condizione di malattia, tra devianza e situazione di bisogno, ma questo fenomeno era ancora più marcato in passato quando mendicità, vagabondaggio e malattia erano pressoché sovrapponibili. Gli enti preposti a presiedere al controllo dell’ordine pubblico erano gli stessi che tenevano sotto controllo istituti di beneficenza, case di lavoro, ospizi per l’accoglienza di inabili e infanzia abbandonata: “la pietà e la forca” l’esercizio della carità e gli strumenti coercitivi per tenere sottocontrollo i rischi di subbuglio e mantenere un contesto sociale in cui non si mettevano assolutamente in discussione l’ordine costituito e i privilegi esistenti. A questo modello sociale ancien régime nell’Ottocento si aggiunge, probabilmente per la diffusione di una cultura fortemente mercantile, concomitante ai primi passi verso l’industrializzazione, una marcata attenzione ai costi della beneficenza e in una visione decisamente economicistica si suggeriscono soluzioni molto simili a quelle adottate dalle moderne aziende sanitarie. E’ interessante a questo scopo l’analisi di un documento prodotto agli inizi dell’Ottocento da Melchiorre Gioia incaricato dal Ministero dell’Interno di condurre un’indagine sulle condizioni economiche e sociali nell’area milanese. Gioia è molto attento al contenimento dei costi e dato che le spese di beneficenza sono molto elevate si fa sostenitore non solo di una gestione più efficiente della pubblica amministrazione, ma anche di un taglio drastico delle varie forme di aiuto. Una proposta che Gioia avanza per abbattere le spese di gestione è il ricorso all’appalto sia per l’approvvigionamento di risorse, sia per lo svolgimento di molte attività; ad esempio Gioia condivide la scelta degli ospedali inglesi di acquistare la carne a settimane alterne da macellai diversi, perché la concorrenza, il libero mercato, stimolano l’emulazione verso il meglio e da ciò non possono che trarne vantaggio l’ospedale e i poveri. Anche il personale, medici compresi, deve essere dipendente non dell’ospedale ma di un appaltatore e se i medici, nel tentativo di far guadagnare di più l’appaltatore trattengono in ospedale i malati che possono essere dimessi (Gioia fa riferimento alla durata ordinaria di una degenza per una determinata malattia) l’appaltatore va penalizzato con una perdita giornaliera superiore a quello che sarebbe stato il suo guadagno.
Vengono in mente alcune “dimissioni selvagge” cui purtroppo si assiste per il timore di sforare il budget assegnato al DRG corrispondente a quella determinata malattia, che a sua volta avrebbe delle ricadute sul budget aziendale e quindi sui capidipartimento, sul direttore generale in termini di richiami e sanzioni economiche. A fronte di un razionamento palese (vedi i DRG) delle spese si assiste ad altre forme di razionamento strisciante che suscitano molte preoccupazioni per il futuro; per esempio l’obiettivo di raggiungere una media di 4 posti letto per acuti ogni 1000 abitanti si può tradurre nella necessità di dover ricoverare una persona con infarto in un ospedale lontano da casa sua perché è l’unico che ha posti disponibili; o può capitare come è successo l’anno scorso in Piemonte che un paziente colpito da infarto mentre andava in bicicletta nei dintorni di Cuneo sia morto mentre veniva trasportato in un altro ospedale distante decine di chilometri per il semplice fatto che nessun ospedale a Cuneo e nella provincia aveva un posto disponibile in un reparto di cure intensive per infartuati. Dopo questo episodio assurto alle cronache dei giornali a livello nazionale, il ministro Sirchia ha dato avvio ad un’inchiesta per accertare le responsabilità! Alla fine degli anni Sessanta in Piemonte esisteva una media di 4,5 posti letto per 1000 abitanti e una donna infartuata ha girato tre ore in ambulanza per Torino ed è stata respinta da ben 4 ospedali!
Mentre le risorse per la spesa sanitaria pubblica vengono gradualmente decurtate, ciò cui si assiste è un incremento delle attività e conseguentemente dei bilanci delle strutture private, peccato che molte di queste attività siano pagate dal pubblico e negli ultimi anni i finanziamenti pubblici verso il privato sono aumentati.
L’ideologia secondo cui tutto ciò che è privato è bello aveva i suoi cantori, come abbiamo visto, in campo sanitario anche in passato, non solo oggi; è inoppugnabile che tutti gli strumenti atti a ridurre gli sprechi dalla gestione amministrativa alle prestazioni sanitarie vanno ricercati, applicati perché la spesa sanitaria di un paese se non è tenuta sotto controllo tende a crescere vertiginosamente, ma è pur vero che non è estendendo il controllo del privato nella gestione della sanità, o ricorrendo alle cosiddette esternalizzazioni delle attività che si risparmia. Come osservano argutamente Vineis e Capri “se lo Stato non ha la capacità di incrementare la qualità delle proprie prestazioni, e per questo ricorre a un privato, non si vede come possa verificare la bontà del lavoro svolto dal privato”[5].
Si possono addurre molte spiegazioni a sostegno del fatto che non è il ricorso al privato che può aiutare a tenere sottocontrollo la spesa sanitaria, e non è neanche vero, come sostiene qualcuno, che l’allargamento alle strutture private delle prestazioni garantite dal pubblico aumenta la libertà di scelta dei cittadini che in questo modo possono andare dove vogliono. La prima osservazione che si può fare è che il privato offre sul mercato ciò che gli rende di più e non ciò che effettivamente può servire al cittadino con il rischio che prestazioni remunerative siano ampiamente a disposizione, mentre quelle poco remunerative, per esempio quelle che richiedono alti costi di gestione, vedi un servizio di pronto soccorso o di terapia intensiva, restino pienamente a carico del pubblico.
Non solo, la libertà di scelta di un cittadino a fronte di un trattamento sanitario è molto spesso una libertà solo apparente. Già decidere se sottoporsi ad un trattamento oppure no, e se sì quale soluzione scegliere, richiede una conoscenza della situazione clinica, degli interventi terapeutici che non è alla portata di tutti. “Comprare” una prestazione sanitaria non è come comprare un’auto; se nella tutela della salute lasciamo libero il mercato con le sue regole, l’obiettivo primario è l’aumento del profitto non certo l’equità e la garanzia di un’assistenza adeguata a chi ne ha bisogno. E per usufruire di un servizio sanitario non è sufficiente l’informazione che il cittadino riceve attraverso i mass-media assai propensi ad esaltare acriticamente e in maniera trionfalistica i successi della medicina tecnologica; anche là dove la scienza medica ha fatto passi avanti notevoli, i risultati sono scarsi se l’intervento non si inserisce in un contesto relazionale di sostegno al malato, vedi per esempio l’assistenza ai pazienti affetti da malattie cronico-degenerative che oggi costituiscono la causa principale di richiesta di prestazioni sanitarie. Purtroppo ciò cui si assiste oggi è una valorizzazione della medicina scientifica-tecnologica mediante la creazione dei cosiddetti centri di eccellenza e una scarsa attenzione verso quelle forme di assistenza in cui le competenze tecniche devono lasciare spazio alle competenze relazionali. L’esercizio del diritto alla salute non è possibile se i politici e i professionisti sanitari non riescono a mantenere uniti questi due aspetti e se la loro attenzione si focalizza solo sui parametri economici. Negli ultimi anni economisti, professionisti sanitari, politici particolarmente attenti ai problemi che la sanità sta ponendo in relazione ai costi da sostenere sono intervenuti non solo con analisi accurate del contesto, ma anche con proposte operative che possano integrare e se necessario correggere la visione economicistica imperante. Quale margine di azione hanno gli infermieri in questa situazione che si è creata? Un elemento importante potrebbe essere quello di riuscire a dimostrare quanto le scelte perseguite in ottemperanza al risparmio indiscriminato aumentino i costi anziché diminuirli. Riferisco qui due casi: un paziente anziano di 89 anni amputato da tanti anni alla gamba sinistra per un incidente, lucido, orientato è stato ricoverato per una frattura di femore sottotrocanterica alla gamba destra; operato viene dimesso 15 giorni dopo il ricovero con ulcere da decubito di 2° e 3° livello in regione sacrale e lombare perché nei giorni che hanno preceduto l’intervento è stato allettato in trazione senza materassino antidecubito; il tipo di materassino che poteva andar bene per quel paziente non era previsto nella convenzione tra la ditta che appalta i materassini e l’azienda in cui il paziente è stato ricoverato. Quanto è costato al Ssn in termini di denaro per le medicazioni, di tempo lavoro degli infermieri la cura delle lesioni? E quanto avrebbe risparmiato se l’appalto fosse stato fissato?
Una donna di 44 anni viene ricoverata e operata per isteroannessectomia per via laparoscopica; è dimessa in seconda giornata post-intervento; durante il ricovero indossa calze antitrombo che, è scritto a caratteri cubitali nella stanza di degenza, devono essere consegnate al personale al momento delle dimissioni; la mattina in cui la paziente è dimessa, nonostante i suoi problemi di insufficienza venosa, non viene informata affinché si procuri autonomamente un paio di calze adatte, prima di affrontare il viaggio per arrivare a casa; la paziente arriva a casa sofferente perché non le è stato somministrato nessun analgesico in vista del viaggio in auto di almeno un’ora e una vena varicosa si è ingrossata ed è molto dolente; quando il medico di famiglia nel pomeriggio arriva prescrive alla paziente le calze antitrombo e visto l’episodio che si è verificato, il ginecologo contattato al telefono consiglia la terapia sottocute per la prevenzione della trombosi per 15 giorni anziché per una settimana come precedentemente indicato. Anche in questo caso i costi sono aumentati e una possibile trombosi avrebbe complicato decisamente il quadro clinico della paziente senza risparmi per nessuno.
Il cambiamento di rotta nella politica sanitaria è il risultato di un fenomeno di revisione che ha investito il modello del cosiddetto stato sociale nel suo insieme e che interessa tutti i paese dell’area occidentale. Come è già emerso in altri paesi i professionisti della salute vivono sentimenti di frustrazione morale in quanto sempre di più si trovano costretti ad affrontare problemi etici riconducibili essenzialmente alle scelte messe in atto in ambito sanitario: riduzione dei finanziamenti, tagli dei posti letto, incremento del carico di lavoro. Da una indagine che è stata effettuata a metà degli anni Novanta da medici e infermieri in Nuova Zelanda sugli standard di sicurezza in un grande ospedale risultò che “violazioni sia etiche che legali si erano verificate”[6] in conseguenza dei cambiamenti prodotti dalle nuove politiche sanitarie.
E’ interessante un fenomeno per le riflessioni che ne possono scaturire: a fronte dei cambiamenti osservati a proposito di politica sanitaria, orientati come è stato detto ad un ridimensionamento degli interventi garantiti dalle strutture pubbliche, si osserva una fioritura di Carte, Dichiarazioni, Proclami[7] a livello internazionale in difesa della tutela della salute dei cittadini. Ciò che si coglie in questi documenti è che:

· un ruolo centrale nella promozione della salute è svolto non solo dai sistemi sanitari ma dalle condizioni di vita; determinanti fondamentali sono: vivere in un paese non funestato dalla guerra, avere una casa in cui vivere, avere un lavoro, l’essere inserito in una rete di rapporti sociali, vivere in un paese in cui sono perseguiti come obiettivi la giustizia sociale e il rispetto dei diritti umani;

· valori guida nelle politiche sanitarie di un paese devono essere: il rispetto della dignità della persona, dell’equità e della solidarietà;

· occorre coinvolgere i cittadini e i rappresentanti della cittadinanza e le strategie politiche andrebbero discusse e condivise con il maggior numero possibile di organizzazioni sociali;

· occorre promuovere un’educazione alla salute tra i cittadini e tra i professionisti: l’attenzione al to cure non deve far dimenticare il to care. Le morti di centinaia di anziani nell’estate del 2003 si sarebbero potute evitare se il prendersi cura, l’aver cura fossero stati tenuti in considerazione altrettanto quanto le cure mediche in senso stretto.

Infine non va dimenticato che uno dei fattori che incide pesantemente sull’aumento di spese della sanità sono le aspettative mitiche come qualcuno le ha definite che i più hanno verso la medicina, come se questa scienza potesse dare una risposta ad ogni problema dell’uomo; aspettative, in parte indotte da un sentire comune assai diffuso per cui dobbiamo essere tutti belli, in perfetta salute, efficienti e felici; in parte, occorre anche dirlo da un esercizio onnipotente della medicina. In un editoriale ormai divenuto famoso, Richard Smith direttore del British Medical Journal ricorda come sarebbe opportuno, soprattutto oggi, dire alla gente che:

· la morte è inevitabile

· la maggior parte delle malattie gravi non può essere guarita

· gli antibiotici non servono per curare l’influenza

· le protesi artificiali ogni tanto si rompono

· gli ospedali sono luoghi pericolosi

· ogni medicamento ha anche degli effetti secondari

· la maggior parte degli interventi medici danno solo benefici marginali e molti non funzionano affatto

· gli screening producono anche risultati falsi negativi e falsi positivi

· esistono migliori modi di spendere i soldi che spenderli per acquistare tecnologia medico-sanitaria.

(la traduzione dal BMJ è di G. Domenighetti)

Bibliografia
1. Bobbio N. L’età dei diritti Torino, Einaudi:1997
2. Bressan E. Povertà e assistenza in Lombardia nell’età napoleonica Bari, Laterza: 1985
3. Domenighetti G. Per una politica di sanità pubblica centrata sui bisogni della popolazione e non su quelli dei servizi: www.trentinosalute.net/UploadDocs/75_art02.pdf
4. Luzzi S. Salute e sanità nell’Italia repubblicana Roma, Donzelli: 2004
5. Rosaia L. Anonima mutuati Milano, Mondadori: 1970
6. Spinsanti S. (a cura) L’educazione come terapia Roma, esseditrice: 2001
7. Vicarelli G. Alle radici della politica sanitaria in Italia Bologna, Il Mulino:1997
8. Vineis P. Capri S. La salute non è merce Torino, Bollati Boringhieri 1994
9. Vineis P. Dirindin N. In buona salute dieci argomenti per difendere la sanità pubblica Torino, Einaudi: 2004

[1] La frase è tratta da il fronte sanitario XXI, 439, 1966 ed è riportata in Rosaia L. Anonima mutuati, Mondadori, Milano, 1970
[2] si fa riferimento a quanto riportato nel sito web del Centro di Documentazione per la Promozione della Salute- Regione Piemonte
[3] Brusco A. Lavoro a rischio per gli extracomunitari in Dati INAIL sull’andamento degli infortuni sul lavoro aprile 2004 n.4
[4] Vineis P. Dirindin N. In buona salute, dieci argomenti per difendere la sanità pubblica Einaudi, Torino, 2004
[5] Vineis P. Capri S. La salute non è merce Bollati Boringhieri Torino 1993
[6] Woods M. Int.Nur.Rev. 45,4,1998
[7] vedi p.e. la “Carta europea dei diritti del malato”, la dichiarazione de’ “I diritti dei pazienti in Europa”, la “Carta di Lubiana sulle Riforme della Sanità” la “Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della salute nel 21° secolo”.