Le case dell’Ombra

Appunti e riflessioni sopra il rapporto tra corpo, architettura ed emarginazione. Intervento al seminario “Il potere generativo degli spazi: incapacitazione e contenimento nelle residenze per anziani e nelle strutture per minori”

Luca Littarru

Premessa
Ho presentato questo piccolo studio all’Università di Pavia nell’ambito di un seminario promosso dalla Facoltà di ingegneria Edile e Architettura, corso di Sociologia urbana. Mi è stato chiesto, come infermiere che opera nell’ambito della psichiatria, di riflettere su come l’architettura possa influire nella quotidianità del lavoro accanto agli psichiatrizzati (parola che, nel mio lessico, sempre più sta sostituendo “malati mentali”). Ne è nato un piccolo studio che mi sembra rifletta il nostro desiderio di entrare nelle istituzioni per accendere delle contraddizioni dal punto di vista del corpo e del nostro rapporto con gli ordinamenti che lo controllano (ospedali, comunità, manicomi ecc), facendolo come infermieri. Il testo che segue è parte della dispensa che è stata distribuita agli studenti. So che hanno organizzato un gruppo di lavoro. Del progredire di questa iniziativa mi feliciterei di dare ulteriori notizie nei prossimi tempi.

Ambivalenza e disgiunzione del corpo: la nascita del valore
Il percorso che questa relazione vuole suggerire, racconta l’opportunità di ricostruire l’itinerario dell’umanità sfruttando un’affascinante ipotesi genealogica. Ciò diventa necessario se si vuole comprendere fino in fondo qual è il rapporto tra gli esseri umani ed i luoghi che incontra, tra il corpo e le cose che manipola, tra la persona e gli apparati architettonici che essa abita.

Se per genealogia intendiamo “delle analisi che, movendo dall’ipotesi che le cose potrebbero nascere dal loro contrario”[1], esse sono in grado di rimettere “in discussione le origini ed i principi” [2] di queste cose, allora ci accorgiamo che tale operazione è stata compiuta, nella storia dell’umanità in Occidente.

Culturalmente siamo abituati ad assegnare un valore alle cose, così come siamo abituati a pensare che alla notte segua il giorno, che al tramonto segua l’alba. La libertà è un valore che si contrappone alla prigionia, la giustizia è un valore che si contrappone all’ingiustizia, la vita è un valore che si contrappone alla morte.

Tutto ciò che è, ha un valore, innanzitutto economico: il computer su cui scrivo, la sigaretta che sto fumando, i vestiti che ho addosso, l’aria che sto respirando. Tale valore ha un significato ed è stato stabilito da un significante: così l’economia si erge a significante e decide i significati – i valori economici – delle cose tramite la moneta, l’oro, che si esprime in una equivalenza generale. Questo computer ha questo valore, questi vestiti quest’altro valore, ed i valori sono appunto espressi dalla moneta, che diventa l’equivalente generale per esprimerli.

Molti altri sono gli equivalenti generali:
il Padre per i figli, il Fallo per le pulsioni, il Senso per le parole, il Dio per gli dèi, l’Anima per i corpi.[3]

Il valore, dunque, esprime una disgiunzione tramite una equivalenza generale decisa da un significante: su questa dicotomia si erge tutto il sistema di pensiero occidentale che, estendendosi, ha disgiunto tutto il disgiungibile, partendo dai corpi. Di questo si tenga ben presente, perché nell’ottica di questa divisione anche l’architettura, come vedremo più avanti, ha avuto il suo ruolo, generando luoghi abitabili da determinate persone ma non da altre, perché anche ai corpi, come ad ogni cosa, è stato assegnato un valore disgiuntivo, e nella disgiunzione sono stati individuati luoghi diversi: gli ospedali per i malati, gli ospizi per gli anziani, i manicomi per i folli, le prigioni per i criminali…

I corpi, dicevamo, e l’affascinante ipotesi genealogica di cui si parlava in introduzione. Operando un’analisi genealogica, possiamo recuperare il corpo alla sua ingenuità, dove per ingenuità non si intenda il senso più errato e deteriore del termine. Ingenuus deriva infatti da in-gignere[4] ed è una parola latina che significa “nativo, originario, naturale, libero”. Recuperare il corpo alla sua ingenuità significa recuperarlo alla una natività, alla sua apertura originaria, alla sua presenza libera nel mondo. Il corpo, infatti, prima di essere educato al potere ed al Sapere, prima di essere abituato alla metafisica della ragione disgiuntiva, è corpo nel mondo al quale si rapporta naturalmente, ma non nel senso scientifico del termine, bensì nella “realtà naturale, nella dimensione del mondo-della-vita”.[5] Ingenui sono i bambini, non perché stupidi ed incapaci, ma perché, non segnati dai codici del Sapere e del potere, si aprono al mondo manifestando la loro originaria liberà e la loro naturalezza.

Come i bambini, per loro età anagrafica, non sono segnati dai codici del Sapere, così le società arcaiche, per loro epoca, non conoscevano detti codici. Come sui bambini, crescendo, vengono inscritti i codici del Sapere (educazione, istruzione, lavoro ecc.) così le società arcaiche hanno conosciuto il potere che ha generato i Saperi che, a loro volta, hanno allontanato i corpi dalla loro ingenuità, dalla loro originaria apertura al mondo, trasformando le società arcaiche fino ad oggi.

Questo allontanamento si è dato scindendo la naturale ambivalenza dei corpi in una bivalenza che risponde alla logica disgiuntiva e che assegna un valore ad ogni cosa.

Il corpo, quindi, nelle società arcaiche che non hanno conosciuto il Sapere scientifico, è vissuto ingenuamente nella sua originarietà: esso è corpo fluttuante, che non si colloca in una registro di valori, e che quindi dice di essere questo, ma anche quello[6]: il corpo è originariamente ambivalente.

Il corpo si assurge a “significato fluttuante”[7] perché con-fonde i codici, essendo esso per sua natura ambivalente, con quella operazione simbolica che consiste nel com-porre quelle disgiunzioni (positivo – negativo) in cui ogni codice si articola: il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, il bello il brutto. Il corpo è ambivalente perché nessuna polarità può essere del tutto positiva o negativa se non per effetto di un codice, ossia di un equivalente generale che assegna un valore ben preciso a tutte le cose. Questa operazione, dalle società arcaiche ad oggi, è stata sistemica e il corpo si concede all’inscrizione di questi codici ma ad essi, per sua ingenuità, anche si sottrae, facendo oscillare il tutto fluttuando, ancora una volta, ambivalentemente. Il corpo, quindi, si esprime con una operazione simbolica, parola che etimologicamente significa com-porre (sym-bàllein), cercando di mettere insieme queste disgiunzioni nate sotto l’effetto di un codice,
com-ponendole. Dunque, se ricomporre in un gioco di ambivalenze le disgiunzioni dei codici del Sapere e del potere è una operazione simbolica, và da sé che il disgiungere questa com-posizione è un’operazione diabolica: non a caso, infatti, il contrario etimologico di simbolico (sym-bàllein) è proprio diabolico (dia-bàllein)…

Di questa ambivalenza la storia ne riporta chiaramente i segni[8]. Da centro di irradiazione simbolica nelle società arcaiche il corpo è diventato, in occidente, il negativo di ogni valore, dove al positivo si stabilisce l’anima. Questa scissione e polarizzazione è stata creata dai Saperi nati dalla significazione che disgiunge, di cui Platone e Cartesio, loro malgrado, ne sono i promotori. Platone, che con la ricerca della sua verità disgiunge il corpo dall’anima asserendo che fino a quando “l’anima resta invischiata in un male siffatto” – il corpo – “noi non raggiungeremo mai ciò che ardentemente cerchiamo, vale a dire la verità […] E così, liberati dalla follia del corpo, ci troveremo con esseri puri come noi […][9]” .

Cartesio, proseguendo la corrente di pensiero Platonica

priva il corpo del suo mondo e di tutte quelle formazioni di senso che si fondano sull’esperienza corporea, per relegarlo nella rex estensa, dove il corpo è risolto in oggetto e inteso, al pari di tutti gli altri corpi, in base alle leggi fisiche che presiedono l’estensione e il movimento[10]

Accanto alla rex estensa Cartesio, in una logica disgiuntiva, parla di una rex cogitas, dove l’anima, sottratta a ogni senso del corpo, viene pensata come puro intelletto: cogito ergo sum.

Le società arcaiche, allora, vedono il loro declino con lo sciogliersi dell’ambivalenza nella bivalenza che presuppone una divisione in valori: ciò che vale e ciò che non vale. Questo accade non perché le cose stanno veramente così ma perché il valore tende a far passare sé stesso come realtà, spingendo nella irrealtà il polo da cui è diviso.

L’architettura come Sapere e la sua opera disgiuntiva
Si tratta quindi di individuare gli attori che occupano il nostro campo: essi non sono l’anima e il corpo (inteso come organismo), in una logica disgiuntiva dove l’anima assume valore totalmente positivo e il corpo totalmente negativo. Essi sono il corpo nel mondo, intendendo il corpo nella sua ingenuità che, aprendosi in quella presenza al mondo in cui si dispiegano le sue cose, cerca di trovare un senso.

Abitando il mondo il corpo contrae consuetudine in uno spazio che non lo ignora, dove si sente a casa, ove, trascendendo la pura oggettività delle cose e degli spazi, il corpo si sente presso di sé.

Ma nella logica disgiuntiva, i corpi che in qualche modo ripropongono in continuazione il loro operare simbolico, i corpi che maggiormente fluttuano tra le linee dei valori, i corpi che incarnano maggiormente di altri la loro ambivalenza e non lasciano ai codici la possibilità di inscriverli completamente nella polarità dei valori, ebbene in tale logica i corpi vanno prima esclusi e poi disciplinati.

Ciò che non corrisponde alla scena del valore positivo stabilita dalla logica disgiuntiva che, tramite una equivalenza generale, inscrive i corpi nella polarità dei valori, dalla scena deve uscire. Quindi, ciò che la società occidentale non riconosce corrispondente a questo scena, essa li esclude. Essere nel mondo significa per il corpo sfuggire questo assedio per abitarlo: per questo folli, anziani, minori con disagio, essendo corpi inscrivibili in valori completamente negativi, da questa scena vengono esclusi, sono quindi considerati o-sceni[11], appunto fuori scena. Essere folli significa avvalersi di quel linguaggio simbolico dove si può dire ed essere questo, ma anche quello. Essere anziani significa cavalcare quella fase della vita in cui il giorno è anche notte, in cui la vita è già morte e la morte è ancora vita. Essere minori significa vivere una fase in cui tutto può essere in un senso, ma anche nel suo contrario. L’inscrizione di questi corpi in una logica bivalente (buono o cattivo, questo o quello, giorno o notte, tutto o niente), costringe poteri e Saperi a collocare questi corpi fuori dalla scena: a renderli, appunto, o-sceni.

Se l’architettura contribuisce, insieme alle altre scienze, a stabilire la scena ove si possa dispiegare la logica disgiuntiva, essa contribuisce a creare anche i luoghi ove collocare ciò che è o-sceno.

I corpi o-sceni, fuori dalla scena del mondo, vanno quindi posizionati, sorvegliati e rilegati in determinati luoghi. Qualora essi si rendano pericolosi, vanno puniti. In ogni caso, vanno disciplinati.

I corpi sorvegliati vengono quindi significati come ostacoli e non come veicoli nel mondo: è l’alienazione, è il corpo disabitato dalla sua ambivalenza, è il corpo escluso dalla scena del mondo che il codice inscrive in determinate categorie: folli, anziani, minori disagiati ecc. Se abitare il mondo significa contrarre abitudini, essere resi o-sceni e, quindi, non essere abitanti questo mondo, significa proprio alienarsi, perché le abitudini dicono di un mondo che circonda un corpo in una conoscenza reciproca. Isolato dal mondo il corpo diventa oggetto perché manca un mondo dove potersi esprimere con senso.

Poteri e Saperi hanno la necessità di suddividere per categorie perché i corpi corrispondano così a degli standard codificati e possano essere di conseguenza assegnati a determinati spazi.

L’etichetta (folle, anziano, minore con disagio) è la corrispondenza in valore di ciò che accadeva nelle società arcaiche che, tramite i riti dell’iniziazione, marchiavano i corpi con cicatrici indelebili che consegnavano le persone al gruppo, al clan. Con-segnavano il corpo alla società, perché la cicatrice “segnava con”, ossia proponeva l’appartenenza a quella data società. La con-segna che, guarda caso, gli anziani trasmettevano ai giovani iniziati era il linguaggio dei simboli, l’ambivalenza di ogni cosa, così lontana dall’assegnazione di valore propria dell’etichetta. Alla con-segna dell’iniziato alla società si sostituisce l’as-segnazione del corpo all’etichetta: il folle e il normale, essendo diversi perché il codice stabilito dai Saperi e dai poteri li diversifica, annullando l’ambivalenza in luogo di una bivalenza che assegna valori buoni o cattivi, devono abitare luoghi diversi e non comunicanti. Lo stesso dicasi per i giovani e gli anziani, per i criminali e i giusti, per i minori con o senza disagio.

Si sa che per accaparrarsi il potere è sufficiente far funzionare i corpi secondo un registro di segni. In questo regime i segni acquisiscono il valore di supremo significato e i corpi diventano lo spazio per la loro scrittura. Il terreno di coltura diventa la capacità di produrre ricchezza e accumulo: i folli non ne producono, i “normali” sì. Gli anziani non ne producono, i giovani sì. I minori con disagio non ne produrranno, gli altri minori probabilmente sì. I criminali non ne producono più, i giusti continueranno a produrne. Categorie etichettate in modo così diverso, secondo la logica disgiuntiva della bivalenza, devono necessariamente abitare luoghi ben diversi e non comunicanti. Forse è per evitare proprio questo che i primitivi, forti della loro ambivalenza, capaci di vivere di simboli, distruggevano tutto ciò che era accumulo, considerando l’accumulo come “la parte maledetta”: alla storia, questa pratica così comune è definita poltàc.

I primitivi vivevano in modo integrato, perché non hanno mai sostituito l’ambivalenza con la bivalenza. Non conoscevano l’etichetta esattamente perché non vi era nulla da catalogare. Erano forti del linguaggio simbolico che, come abbiamo già visto, etimologicamente, significa com-porre (sym-bàllein). Simbolico (sym-bàllein) è il contrario di diabolico (dia-bàllein), così come il contrario di com-porre è dis-porre, da cui deriva dis-potico. La disgiunzione è dunque dispotica.

La disgiunzione dispotica nell’architettura: il Panopticon.

Dall’esclusione alla disciplina

Lebbra e peste sono state due tremende catastrofi. Con la lebbra si è introdotto il discorso dell’esclusione tramite i lebbrosari, con la peste, invece, si è introdotto il discorso della disciplina.

Foucault[12] ne parla ampiamente, raccontando in modo chiaro come se per la lebbra fu necessaria la costruzione di lebbrosari per la cura e la prevenzione della diffusione della malattia, con la peste la sola esclusione intesa come isolamento non bastò più. Foucault, raccontando le pratiche che furono poste in essere per controllare il diffondersi della peste dice che

Alla peste risponde l’ordine. […] Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte […] fino alla determinazione finale dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade.

Il potere si esercita senza interruzioni […] dove ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito tra i vivi, gli ammalati e i morti.[13]

Ma la peste fonda anche un disegno politico, l’ordine, la disciplina, un disegno che nel suo immaginario pretende di controllare l’ossessione del contagio della peste, ma anche delle rivolte, dei crimini e, perché no, della follia, dell’infanzia distorta e disordinata, della vita che và verso la morte.

Se il contagio della lebbra doveva essere evitato evitando il contatto, da cui l’esclusione, il contagio della peste doveva essere evitato evitando la promiscuità tramite la disciplina che tutto assegna, diversifica, controlla, caratterizza, sorveglia, rieduca ed eventualmente punisce.

Nel corso del XIX secolo, esclusione e disciplina si avvicinano fino a fondersi.[14] E’ la nascita di luoghi con peculiarità architettoniche straordinarie: l’asilo psichiatrico, il penitenziario, la casa di correzione, in parte gli ospedali e, più tardi, gli orfanotrofi e gli ospizi. Da una disgiunzione bivalente (folle – normale, pericoloso – inoffensivo, deviato – avviato) a una ripartizione differenziale del valore che viene collocato alla polarità negativa. Il folle chi è, come controllarlo, come riconoscerlo; chi è il pericoloso, come sorvegliarlo, come punirlo; chi è il deviato, come riavviarlo, come educarlo.

La disgiunzione costante secondo la logica della bivalenza, che assegna valori totalmente negativi o positivi, giunge fino a noi. Temuta e distrutta dai primitivi nel poltàc, ricondotta a nuova vita da Platone e Cartesio, passando per l’esclusione della lebbra ed il sogno politico della peste, giunge fino a noi, marchiandoci in un codice di valori scisso tra normalità ed anormalità: la figura architettonica di questa composizione è il Panopticon.

Protezione – disoccultamento – disciplina – redenzione: il Panopticon di Bentham.

Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro, una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato […]. Per effetto del controluce si possono cogliere, dalla torre, le fattezze dei corpi prigionieri nelle celle.[15]

E, aggiunge poi Foucault, per effetto del riflesso di luce sulle finestre della torre centrale, nessun prigioniero può vedere cosa stia facendo in quel momento il sorvegliante: se lo stia osservando oppure no, fino ad arrivare a chiedersi se il sorvegliante ci sia davvero. Ma questo non importa, perché la domanda resta ovviamente senza risposta: ciò che accade è un meccanismo di autodisciplina perché in qualsiasi momento, senza che io lo sappia, potrei essere osservato. Il prigioniero è in uno stato di cosciente e continua visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere.

Il potere dell’osservazione di questi corpi genera un Sapere. Il Panopticon (parola composta da Pan ossia il dio del corpo e della masturbazione, e opticon ossia guardare, osservare) può dunque essere usato “come macchina per fare esperienze, per modificare il comportamento, per addestrare o recuperare degli individui. Per sperimentare dei medicamenti e verificarne gli effetti. […] Il Panopticon funziona come una sorta di laboratorio del potere. Grazie ai suoi meccanismi di osservazione, guadagna in efficacia e in capacità di penetrazione nel comportamento degli uomini”[16]

Ma se la città appestata era una situazione di eccezione che poteva, in qualche modo, giustificare la disciplina dei corpi, il Panopticon, come vuole Foucault, diviene modello generalizzabile non solo nel suo intendimento politico ma, ed è quello che ci interessa in questa sede, nel suo principio architettonico inteso come strumento di tale intendimento.

Il Panopticon infatti

protegge la società normale da quella anormale, disgiungendo i corpi che stanno alla polarità negativa del valore e appropriandosene nel proprio meccanismo architettonico: è la prigione, è il manicomio, è l’orfanotrofio, è l’ospizio.

disocculta i corpi, tramite il sistema di luce e controluce e li rende osservabili: dall’osservazione nascono nuovi Saperi (la criminologia, la psicologia, la geriatria, le scienze del comportamento ecc.)

disciplina i corpi tramite l’autodisciplina. I corpi dunque non sono solo oggetti del potere, ma essi stessi sono i soggetti sui quali il potere iscrive il suo sistema di codici: in breve, la disciplina li rende docili

redime, perché la disciplina genera nuovi comportamenti: se il Panopticon è prigione, il criminale non è più pericoloso; se è manicomio, il folle si cronicizza; se è fabbrica, l’operaio è produttivo ecc.

Abbiamo detto che la bivalenza scioglie l’ingenuità ambivalente del corpo in una logica disgiuntiva dove un significante dispotico, un equivalente generale, assegna valore ad ogni cosa e in base a questo divide: buono/cattivo, bello/brutto, giusto/sbagliato, bene/male, anima/corpo, sciogliendo il simbolico in diabolico.

Abbiamo detto che la logica disgiuntiva necessita di luoghi e di apparati architettonici preposti ad accogliere ciò che sta in scena (valore positivo) e ciò che è fuori dalla scena, e dunque è o-sceno (valore negativo).

Abbiamo infine detto che il Panopticon è l’apparato architettonico originario da cui certa architettura ha preso origine perché diventasse luogo di abitazione dell’osceno, ma anche luogo di esclusione e di disciplina.

L’assennato e il folle – Il minorenne avviato e il minorenne deviato – La gioventù come vita, la vecchiaia come morte.

La follia trova il suo luogo di abitazione, classicamente, nel manicomio, il quale assume nelle sue caratteristiche architettoniche sia le caratteristiche escludenti dei lebbrosari che le caratteristiche disciplinanti del Panopticon. La parola folle, sia detto per inciso, non riesce a risolvere in sé la disgiunzione: il folle è folle, è pazzo, è matto, sebbene folle possa significare da una parte alienazione e non-senso (il folle, mettere in folle il motore perché giri a vuoto, senza senso) ma, dall’altra, significa anche moltitudine: tanti gruppi di persone compongono delle folle. Una parola assolutamente ambivalente, non c’è che dire.

Non ci interessa, in questa sede, addentrarci nell’opera escludente e disciplinante che ha svolto il manicomio. Tuttavia, segni di panoptismo sono ancora presenti nei moderni ospedali psichiatrici che solo sulla carta superano la fase manicomiale, ma non nell’architettura che, come abbiamo visto, è anche garanzia di divisione tra ciò che può stare in scena e ciò che è o-sceno. Non bisogna essere architetti per dire che una piazza è altro da un manicomio.

Gli ospedali psichiatrici, così come i più moderni servizi psichiatrici di diagnosi e cura, sono ancora concepiti con una guardiola centrale – la torre – da cui si dipanano, in due o più braccia, corridoi – l’anello – che ospitano file di camere sempre rigorosamente aperte – le celle – o con uno spioncino attraverso il quale buttare l’occhio. A duecento anni di distanza osserviamo come il panoptismo, riveduto e corretto, sia ancora fondante nella progettazione di dette strutture. Si dirà che sono rigurgiti del passato, modelli architettonici vecchi ed ereditati. Niente affatto. Presso l’ospedale neurologico Mondino di Pavia, progettato e costruito pochissimi anni fa, ha sede la neuropsichiatria infantile. Ebbene il reparto vede la presenza di uno studio – guardiola centrale da cui si dipanano due corridoi su cui sono disposte le camere. Nella zona terminale di ciascun corridoio una telecamera, collegata a circuito chiuso allo studio centrale, garantisce il perpetrarsi del sistema panoptico. Le telecamere, che nel loro sistema compongono la videosorveglianza, sono l’espressione tecnologica del panoptismo. Le telecamere messe nelle metropoli per valutare il traffico o prevenire i crimini, sono in realtà un modello che arriva direttamente dal Panopticon di Bentham e, con l’esca della loro “funzione sociale”, riproducono il meccanismo: è la città panoptica che protegge, disocculta, disciplina, redime. In ultima istanza controlla, disciplina, punisce.

Gli orfanotrofi hanno ospitato minori che già per il solo motivo di collocarsi fuori dalla famiglia classicamente intesa sono considerati o-sceni: essi trovano abitazione in luoghi del tutto simili. Certo, non tutti i luoghi sono così. Ma anche qui il minore, che se non è avviato alla vita secondo l’equivalente generale è posto, secondo la logica disgiuntiva, nella polarità opposta, quella del deviato, vede palesarsi davanti a sé il medesimo destino.

E che dire delle residenze per anziani? Trasformate, rivedute e corrette nei nomi, mai sono variate sostanzialmente nella loro architettura. Rese più umane, certo, arricchite di luoghi per stare insieme, dove effettuare le attività occupazionali, ma ben divise dalla scena del mondo. Anche qui la logica è disgiuntiva: ciò che è vecchio richiama la morte, per cui è o-sceno, da porre in una polarità che ha un valore completamente negativo, in favore della gioventù che ha valore positivo e che richiama, secondo l’equivalenza generale, altri valori positivi: la bellezza, la produttività, la vita. Come se vita e morte fossero due condizioni che, nella realtà, si possono disgiungere: chi è in grado di definire quando un corpo inizia a morire? Non è, ogni giorno che passa, un avvicinarsi alla morte tramite il fluire del tempo, evidente ambivalenza di un corpo che sta vivendo ma anche che sta morendo? Ulteriore riprova di come l’ambivalenza dell’esistenza venga sciolta in una bivalenza inscritta da un gioco di codici che identifica la vita e la morte come situazioni completamente separate.

Ipotesi di recupero dell’ambivalenza in un’ottica (anche) architettonica
Si configura per il corpo l’opportunità di s-fidare i Saperi e i loro codici sul registro dell’ambivalenza per il recupero di quella connotazione simbolica propria della storia dell’uomo. Qui s-fida non significa opporsi a qualcosa o a qualcuno bensì, come vuole Galimberti[17], non affidarsi (s-fidarsi) con pienezza ai valori che i codici promossi dai Saperi e dal potere tentano continuamente di inscrivere sui corpi, quindi non affidarsi a quell’equivalente generale che, ponendo una barra che scioglie l’ambivalenza in una bivalenza di valori, vuole individuare una polarizzazione o negativa o positiva (giusto/sbagliato, bene/male, vero/falso ecc.). Non si tratta di sfidare questa barra disgiuntiva da un punto di vista oppositivo, piuttosto è necessario riconoscere come questa disgiunzione sia cresciuta grazie alla mortificazione dei corpi privandoli di senso, di identità, di storia e risignificandoli nei valori che Saperi e potere desiderano perché i corpi siano meglio controllabili grazie all’inscrizione nei codici che questi valori stabiliscono.

Ogni scienza, la mia come la vostra, è portatrice di un Sapere, e quindi di un potere. E, consapevoli che ogni scienza si fonda su una logica disgiuntiva, sta a voi ricomporre i luoghi da abitare. Voi che progettate i luoghi dove far abitare i corpi, avete in mano una grossa alternativa. Progettare luoghi che eliminano la barra della disgiunzione è compito vostro: luoghi com-posti, sym-bàllein. Sradicando la disgiunzione e com-ponendo i luoghi potrete costringere l’ingegneria architettonica a pensarsi contro sé stessa. Pensandosi contro sé stessa l’ingegneria e l’architettura non si pongono in una logica oppositiva che altro non fa che richiamare la logica disgiuntiva. Pensarsi contro significa esattamente in-contrarsi in quella originaria apertura al mondo che è l’ambivalenza. Significa
dis-orientarsi per recuperare il proprio originario oriente.

Progettare luoghi ambivalenti significa che questi luoghi possono essere questo, ma anche quello. Luoghi che possono essere frequentati dai vecchi, ma anche dai giovani. Dagli assennati, ma anche dai folli. Dai deviati ma anche dagli avviati. Progettare luoghi ambivalenti significa, io credo, individuare quel luogo dove la barra tra folle e assennato, tra vecchio e giovane, tra avviato e deviato viene a cadere, in una logica di ricomposizione dove i corpi, non più inscritti nei valori, sono folli ma anche assennati, avviati ma anche deviati, giovani ma anche vecchi. Sono, in definitiva, privati della loro etichettatura e restituiti alla loro ambivalenza.

Come vuole Bricocoli,[18] non avremo più incapacitazione o simulazione. Non avremo più piazze non attraversate o servizi creati ad hoc per determinate categorie di utenza. In particolare su questo, definito appunto simulazione, mi vorrei soffermare, quando si afferma

L’allestimento di alcuni servizi, o meglio, di alcune prestazioni erogate all’interno delle strutture risulta quasi caricaturale nella sua simulazione e semplificazione dello spazio urbano: parrucchieri, bar, palestre e spazi/attività di socializzazione. Diventano ‘funzioni’, dotazioni interne dei servizi che disabilitano ed escludono la problematicità dell’esercizio in luogo pubblico[19]

Quale senso ha un bar per soli folli? Quale senso ha un parrucchiere frequentato solo dagli anziani della residenza? Progettare luoghi ambivalenti significa progettare strutture interfacciabili, dove accanto alla funzione di protezione delle strutture vi siano interfacce, cioè luoghi frequentabili da tutti.

Se i servizi strutturali non abitano il mondo ma solo luoghi deputati a tali attività e per determinata utenza, il rischio è che avvenga proprio, come vuole Bricocoli[20], una simulazione, e siamo a mio avviso in ritardo di una rivoluzione, come il Messia di Kafka che arriva l’indomani del giudizio universale, quando non è più necessario.

Per converso, se i servizi abitano il mondo mantenendo la loro funzione di servizio ma anche diventando luogo pubblico allora, per esempio, il parrucchiere della residenza per anziani potrà esserlo per tutti, prefigurandosi come luogo di incontro e di ricomposizione, sym-ballein. Ma questo è solo un modesto suggerimento.

Referenze fotografiche:

Edward Munch La tempesta 1893

Edward Munch Chiaro di luna 1893
Renè Magritte, L’impero delle luci 1954

[1] P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro fra genealogie e movimenti di base, Ombre Corte Edizioni, Verona, 1999, p.25
[2] Ivi, p.26
[3] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2003, p.19
[4] Ivi, p.115
[5] H. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano, 1972, pp. 330 – 331
[6] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 11
[7] Ibidem
[8] Molta dell’opera bibliografica di U.Galimberti, M.Foucault e F.Nietzsche ne è ricca.
[9] Platone, Fedone, 66 b-67 a.
[10] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 69
[11] Ivi, p.478
[12] M.Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993
[13] Ivi, p.215. Corsivi miei.
[14] Ivi, p.217
[15] Ivi, p.218
[16] Ivi, pp. 222, 223
[17] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2003
[18] AAVV, Il genius loci del welfare, 2003, pp.76-77
[19] Ivi, Massimo Bricocoli, p.77
[20] Ibidem