In fondo alla coscienza

di Mariano e Massimo  De Mattia

Disegno di Massimo De Mattia

Il salvinismo italico, sempre alle prese col muscolare consenso elettorale, si è mostrato capace di lasciare la vita in ammollo in mezzo al mare. Le vicende delle navi Open Arms, Diciotti e Sea Watch ne sono tristissimi esempi.
Ho fatto veramente fatica a far comprendere ai miei figli le ragioni che spingono a scegliere la via dei porti chiusi. Alcune perversioni ideologiche adulte risultano assolutamente incomprensibili ai bambini. Si può solo proporre la storia fantastica, Benigni docet con “La vita è bella”, che tutti si stanno dando un gran daffare per preparargli una festa di benvenuto a sorpresa e dunque, prima che tutto sia pronto, trovano dei pretesti per lasciarli a bordo! Più d’ogni altra cosa, c’è un’affermazione ed un’immagine che coagulano in me tutto il dolore e lo sdegno relativo al fenomeno delle migrazioni.
L’immagine è quella del bambino in fondo al mare con la pagella cucita nella giacca. Un fotogramma che esprime chiaramente la misura in cui una fetta di umanità si è convinta, o per meglio dire l’abbiamo convinta, che ha un valore ancora tutto da dimostrare.
A questa fetta di umanità è chiesto di esser sempre pronta ad esibire un permesso, un documento, un’abilità o una certificazione che gli permetta di dimostrare inconfutabilmente il proprio valore.
Per questa umanità costretta ad identificarsi con il lascia passare, il sigillo di garanzia ed il certificato di qualità, io mi vergogno di essere uomo. Quando penso che un bambino, partendo dall’altra parte del mondo, debba immaginare di cucirsi la pagella nella giacca come unica possibilità per essere considerato bravo, io mi vergogno di essere uomo.
Quella pagella, quel pezzo di carta va preservato a tutti i costi poiché, in caso di sopravvivenza al termine della traversata, va esibito come permesso di esistenza. Io mi vergogno di essere uomo, perché se ci sono bambini dall’altra parte del mondo che pensano questo, significa che ci sono adulti da quest’altra parte del mondo che hanno fatto di tutto affinché questa convinzione si radicasse. L’abbiamo fatto nel corso della storia attraverso l’adesione agli imperi coloniali, inventandoci ed appoggiando guerre, arricchendoci con il commercio di armi e diamanti, attirando manodopera nel paese delle meraviglie quando i migranti ci facevano comodo (nelle fabbriche, poi nei campi ed infine nella cura ed assistenza dei nostri cari), salvo poi tentare di disfarcene a tutti i costi perché “prima gli italiani”.
Abbiamo una gigantesca responsabilità noi, sino al punto che può spingere un uomo salvato dalle acque a dire: “meglio annegare che essere arrestato dalla marina Libica”. Come è possibile dormire sonni tranquilli al pensiero che siamo tra i paesi che fanno accordi economici con le milizie libiche affinché riducano i flussi verso l’Italia? Tutti i riflettori puntati sulla presunta collusione tra Ong e scafisti, con tanto d’avvio di processi ed indagini, e neanche un fiammifero che illumini l’abbraccio tra gli aguzzini delle carceri libiche ed i ministri della Repubblica Italiana alle prese con la più bizzarra e miope politica estera. Mandare al macero una fetta di umanità, proprio come si fa con la documentazione quando sono decorsi gli obblighi decennali di conservazione, è diventata l’unica forma di cooperazione internazionale di cui siamo capaci?
Sappiamo benissimo cosa succede a queste persone quando ritornano il Libia, ma questo non ci impedisce di fare degli accordi economici. Non li fanno soltanto i politici questi accordi, giacché è partecipe di questo accordo chiunque gli ha conferito potere mediante il consenso elettorale. È partecipe chiunque non trova un sistema per opporsi, schierarsi, alzare la voce. Provo ribrezzo nei confronti di un mondo in cui la merce, differentemente da ciò che è consentito ad un essere umano, si può spostare liberamente per soddisfare, a qualsiasi ora del giorno e della notte, i vizi esotici degli opulenti palati occidentali. Come potremmo sopravvivere senza poter assaporare avocado, tamarindo, papaia e mango? Mi imbarazza un mondo in cui non è sufficiente che un migrante chieda il permesso di soggiorno. No, perché noi vogliamo che ci chieda il permesso di esistenza!
Mi sento un alieno quando non è ancora chiaro che sono gli uomini ad appartenere alla terra e non il contrario. È ormai un po’ di tempo che non ho più timore dei terroristi, mentre comincio a temere immensamente per l’incombere del giorno in cui i buoni perderanno la pazienza. Ho paura del giorno in cui le persone che abbiamo “aiutato” a considerarsi dei pezzi di ricambio, quelle che chiedono continuamente permesso, quelle che si scusano anche quando a finirgli addosso è l’altro…perderanno la pazienza. Io mi vergogno ogni qualvolta, nell’esercizio della mia attività, noto che di fronte ad un migrante la formula automatica di interlocuzione è il “tu”. Il lei sembra un eccesso di zelo. Molto più adeguato quando c’è da sguainare la lingua per fornire un adeguato tappeto al deambulante luminare di turno: “Buongiorno Dottore. Ha bisogno d’aiuto”?
Temo profondamente il giorno in cui ci sarà la rivolta dei buoni, perché quel giorno sarà molto doloroso, perché si rovesceranno i secchi di bile accumulati dalla brava gente nel corso degli anni. Quel giorno, egoisticamente, spero che io ed i miei figli saremo già morti. Viceversa, sarò obbligato a scegliere da che parte stare, dovrò decidere se ferire o essere ferito. Non ci sarà più tempo per prendere tempo, proprio perché quando potevamo e dovevamo schierarci dalla parte dell’umanità non l’abbiamo fatto, ci siamo limitati, nella migliore delle ipotesi, a lanciarci e compiacerci in riflessioni autocelebrative come questa.

De Mattia Mariano