La giornata della memoria e l’umanità infermiera.

di Giordano Cotichelli

Il Giorno della memoria è fra quelle ricorrenze che lascia poco spazio di scelta. Molti lo sottolineano in vario modo per ricordare le vittime dei campi di concentramento del nazismo e del fascismo: ebrei e tutti gli altri esseri umani eliminati in un’assurda categorizzazione degli individui in base al comportamento sessuale, alle scelte politiche, di vita, etc. Molti lo leggono quasi con fastidio, propensi a farlo scadere nel dimenticatoio della storia ufficiale o peggio nel revisionismo che vuole reinterpretare le tragedie umane e i delitti politici secondo la strumentalità del momento. I più lasciano trascorrere la giornata del 27 gennaio quasi nell’indifferenza, senza accusare in alcun modo variazioni dei propri livelli di empatia umana, e lasciandosi maggiormente commuovere da un cagnolino abbandonato sull’autostrada, che non dal braccio tatuato di un bambino ebreo (rom, slavo, apolide, etc.), che non da un migrante in balia delle onde in mezzo al canale di Sicilia.
La scelta della data del 27 gennaio è cosa nota ai più. In quel giorno, nel 1945, le avanguardie dell’Armata rossa sovietica arrivarono nella sperduta località di Auschwitz ed entrarono nel campo, e ne liberarono i prigionieri. Per molti sarà la fine di un incubo e l’inizio di una nuova vita. Dopo quel giorno molti altri campi verranno liberati. In qualche caso, alcune foto dell’epoca mostrano prigionieri che all’ingresso del campo mettono degli striscioni nella loro lingua originale per salutare i liberatori: gli antifascisti spagnoli a Mauthausen, gli ebrei francesi, i greci, gli iugoslavi, etc. In mezzo a quelle tante persone che ritornavano alla vita, e in mezzo a quelle tante persone che purtroppo non sarebbero più tornate, c’era tutto un mondo, un’umanità differente, variegata, ricca di saperi e mestieri. C’erano anche medici, infermieri ed ostetriche che nella disperazione fecero nascere vite di nascosto dalle belve in divisa, e tanti altri professionisti sanitari e non, che si videro promossi in assistenti dei tanti problemi di salute e malattia che affliggevano i deportati.
Nei campi si moriva per le torture e per il sadismo dei militari, per la fame e lo sfruttamento lavorativo del sistema industriale dello sterminio, per le malattie che strappavano alla vita senza troppa fatica. Bastava una ferita infetta o una diarrea, una banale sindrome da raffreddamento che si trasformava in polmonite, o un minuto di più di lavoro stremante che faceva scoppiare un cuore, reso ormai troppo

Irena Sendler

debole anche in quello che sarebbe stato un corpo giovane. In questi ultimi tempi stanno riaffiorando lentamente le testimonianze di molti infermieri che si prodigarono per assistere, curare, salvare, lenire, mantenere viva una piccola porzione di umanità. Si ricorda ad esempio Irena Sendler, infermiera del Ghetto di Varsavia (nei fatti un campo di sterminio “urbano”), che riuscirà a mettere in salvo più di 2.500 bambini ebrei. E la figura poi di Maria Stromberger, infermiera austriaca ad Auschwitz, che collabora direttamente con la resistenza polacca del campo e distribuisce alimenti e farmaci di nascosto agli internati, cercando sempre, anche nell’infermeria del campo, di restituire loro un po’ di umanità negata. Agli appunti che le fa in merito il Dottor Eduard Wirths, sottolineandole di essere troppo materna ed umana con i prigionieri i quali, non sono dei criminali, ma sono dei nemici, l’infermiera austriaca risponde che lei non è né una SS né tanto meno una guardiana, ma una infermiera. Difficile capire oggi il peso dell’azione di queste due – fra tante – figure che rendono giustizia alla professione e all’amore per l’umanità.

Maria Stromberger

Giustizia alla professione, si! Perché accanto a tante e tanti infermieri coraggiosi ce ne sono state anche centinaia “ligie al dovere” che eseguirono gli ordini, i protocolli, non corsero rischi o applicarono semplicemente la legge e la regola. Ecco, anche queste sono testimonianze cui ci si dovrebbe riferire nel giorno della memoria, le tante piccole banalità del male che hanno reso possibile la macchina dello sterminio. Durante la Seconda Guerra Mondiale, ed anche prima da nelle colonie europee in Africa, o nel genocidio degli Armeni in Turchia. E dopo, in quasi un secolo “di pace armata”. Ed oggi, in Yemen dove si bombarda con armi costruite in Italia, o nel Mediterraneo, dove si specula con una politica terroristica costruita in Italia. Od ogni volta venga dimenticato il proprio ruolo di professionista dell’assistenza – ma ci si potrebbe riferire a tutte le professioni e i lavori – nei confronti di chi non viene letto come portatore di un bisogno, ma come oggetto verso cui sfogare il proprio rancore e la propria frustrazione, nascondendosi dietro leggi e circolari vari. A chi legge queste poche righe, se andrà mai in visita in un campo di sterminio, può essere utile visitare, se possibile, anche l’infermeria del campo. Osservare le sue piastrelle bianche, proprie di qualsiasi infermeria del ‘900. Sfiorare le pareti della stanza, scrutare la luce attraverso le vetrate delle finestre e delle porte. Toccare i tavoli di marmo su cui venivano “visitati” i prigionieri e fermarsi un attimo a pensare, ricordare, sentire. E cercare di capire come in quei luoghi, come in questi luoghi della quotidianità sanitaria molto spesso ci si possa trasformare da professionisti in aguzzini (basti pensare a Francesco Mastrogiovanni morto dopo 87 ore di contenzione nel 2009, in Italia) o, al contrario, come chiunque portatore di determinazione, saperi e sentimenti può tirare fuori dalla sua persona l’umanità infermiera presente in ognuno di noi. Quell’umanità che non è generica, fine a sé stessa, ma che si lega a valori e ad azioni, alla solidarietà che si esprime fra gli ultimi e che deriva il suo significato etimologico dal termine “solido”, che rappresenta qualcosa che c’è e si fa sentire, resiste a traumi e ad urti. Resiste così bene che la fisica chiama questa sua caratteristica “resilienza”. Un termine che qualcuno vuole declinare come nuova forma di lettura della salute umana. Un termine che nell’assonanza ci riporta alla resistenza, ma che nei fatti ci impone di non perdere la memoria di ciò che è stato. Per un giorno, per tutti gli altri giorni.

Giordano Cotichelli