L’uomo e i suoi fantasmi

Indagare il rapporto tra infermiere e psicotico: un compito difficile Molto è stato scritto e detto su questo argomento, mi limiterò a mettere in campo una serie di riflessioni per lo più derivanti dal mio vissuto, dai miei studi e dal confronto con i colleghi. Parecchie sono le questioni ancora aperte, per certi versi ancora embrionali, circa il ruolo dell’infermiere nell’istituzione psichiatrica e nel rapporto con lo psicotico, in questo nuovo millennio

Luca Littarru

Fare i conti con il proprio passato

. Le questioni che esporrò non hanno la pretesa di esaurirsi in sé, dando quindi delle risposte ai quesiti che intendono porre. Vogliono piuttosto essere spunti, spigolature, passaggi ancora aperti, per certi versi vogliono essere una sfida all’odierno intendimento che la professione infermieristica dà del ruolo dell’infermiere nel lavoro con lo psicotico.

Questo articolo, nel suo complesso, nasce dopo aver studiato una parte del contributo teorico di Zapparoli: mi riferisco, in particolare, ai testi “La psicosi e il segreto” e “L’infermiere psichiatrico”.

L’infermiere che si occupa di psichiatria ha oggi a che fare con una questione centrale: egli deve fare i conti con il suo passato, con il contesto sociale e culturale in cui ha operato nell’epoca custodialistica che, come una piovra senza tempo, ancora oggi allunga i suoi tentacoli. In un certo qual modo essi gli impediscono di essere parte del tempo che vive, di assumere un ruolo evoluto e pieno.

Le motivazione per cui questo accade sono diverse. Ne ho individuate quattro, quelle che mi sembrano oggi di maggior rilevanza, ossia la già accennata questione legata all’eredità manicomiale, le problematiche inerenti alla formazione, la questione del ruolo e della specificità professionale, la posizione all’interno di uno staff multidisciplinare integrato.

Per ciò che concerne l’eredità manicomiale, va detto fin da subito che per quanto ci riguarda, come categoria, il superamento del manicomio è questione ancora tutta aperta, e non credo, con questa affermazione, di essere troppo duro. Uso dire che spesso il manicomio è nella testa, è dentro e non fuori di noi. E’ un’eredità densa e difficile da superare: l’infermiere è stato prima custode e carceriere, esecutore di compiti impartiti dall’alto, è stato il soldato dell’impero manicomiale e, prima ancora, è stato marinaio, come ci suggerisce Foucault, guardiano dei folli sulle navi che, in epoca rinascimentale, trasportavano i così detti insensati lungo rotte oceaniche improbabili, dei provetti Caronte, custodi della pazzia, su vascelli traghettatori di anime. Perché questo la società ha sempre chiesto all’infermiere in psichiatria: essere la sentinella della follia, essere il garante dell’eliminazione dei nostri fantasmi, della paura di ciò che non ha senso, di ciò che “gira a vuoto” (non a caso si dice mettere la marcia in folle per far girare a vuoto il motore), in ultima istanza della morte.

Nuovi significati, nuove abilità

A proposito scrive Foucault: “So che una cosa sopravvivrà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte; che, una volta messo fuori circuito ciò che è patologico, l’oscura appartenenza dell’uomo alla follia sarà la memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattia, ma irriducibile come dolore” (Foucault, 1973).

Credo che il nodo cruciale sia quello di liberarsi di questo fardello risignificandoci come professionisti, e per far questo è necessario perdere il nostro significato storico. Ho usato parole come sentinella, custode, guardiano: queste parole hanno un minimo comune denominatore. Chi è guardiano, custode, sentinella, è chiamato ad eseguire un compito, ad esercitare un’attività di controllo sull’altro e non è chiamato a porsi il problema di accettare e di capire cosa accade in chi custodisce, anzi, è in un certo qual modo invitato a non farlo. Zapparoli, invece, nella prefazione del libro “L’infermiere psichiatrico”, afferma che “solo se la condizione di psicotico viene accettata può venire anche capita nelle sue caratteristiche, e questo diviene il punto di partenza indispensabile per un’alleanza di lavoro” (Zapparoli, 1991).

Perdere il significato storico e risignificarsi vuol dire riacquisire il senso etimologico della parola infermiere, cioè chi si occupa della persona inferma, della persona che traballa. Ma in questo processo di risignificazione è necessario che l’infermiere si assuma la responsabilità e abbia la forza ed il coraggio di perdere, in determinate occasioni, ogni significato che la politica professionale, la storia, la formazione, l’etichetta sociale gli impongono. In ultima analisi, non essere identificabili. Immagino che se avessi di fronte una platea di infermieri sentirei dei sussurri inquieti: ricordo le discussioni spese con molti colleghi attorno alla faccenda della divisa, di come sgranavano gli occhi quando affermavo i limiti e i solchi che una divisa può scavare in condizioni non strettamente ospedaliere. Il non essere identificabili facilita, per altro, quel processo di ridefinizione di cui parla Zapparoli a proposito dell’abilità che un operatore deve avere per essere investiti solo magicamente di capacità da parte della persona psicotica, presentandosi a lui come oggetto inanimato e inesperto.

Risignificarsi come infermieri presuppone, e veniamo agli altri tre punti, investire le proprie energie nella formazione e riconoscere la propria specificità professionale all’interno di uno staff multidisciplinare integrato.

Formazione su ventiquattrore

La formazione di base è assolutamente carente, poiché sia storicamente che in questo periodo, la richiesta del mercato sanitario è quella di preparare persone – infermieri – capaci da un punto di vista tecnico – manuale. Esiste quindi un bisogno di formazione che và assolutamente colmato, sia durante gli studi universitari che nella fase di formazione post – base.

Ciò nonostante, l’infermiere ha una propria specificità professionale, che ho già definito in passato come la specificità delle ventiquattrore e che è, in sostanza, l’avere a che fare con la quotidianità. Pensando al lavoro di Zapparoli, ho immaginato quanta fatica possa sentire uno psicotico nel vivere, per esempio, la propria creatività o nel difendere i propri segreti. Avere a che fare con questa fatica, non prescindendo da essa, credo sia un ambito di lavoro potenziale straordinario per l’infermiere. La fatica dello psicotico è, io credo, da intendere in un’accezione molto ampia. In “La psicosi e il segreto” Zapparoli definisce tre necessità fondamentali per lo psicotico: quella di mantenere la fusionalità simbiotica, quella di romperla, e quella di restare in una posizione ambivalente che gli permette di essere contemporaneamente fuso ed emancipato. Costruire una fiducia ed un rapporto empatico all’interno di questa oscillazione è cosa di grande importanza e per farlo c’è bisogno di condivisione, di identificazione, di accettazione e di comprensione della condizione psicotica: c’è bisogno di tempo per frequentarsi, di 24 ore appunto.

Ma nelle 24 ore, la specificità del lavoro infermieristico attraversa anche l’ambito della riappropriazione, per lo psicotico, dei gesti quotidiani e l’aiuto che in tal senso si può fornire. Azioni come mangiare, lavarsi, salutare gli altri, vestirsi oppure recarsi a letto, sentire l’incombenza del buio, svegliarsi e decidere di alzarsi, essere insonni e decidere di chiedere aiuto all’operatore di turno quella notte sono gesti spesso difficili, complicati dai vissuti, densi di significati simbolici. Il carattere apparentemente semplice dei gesti quotidiani, per una persona psicotica, diventa spesso fonte di fatica. Pensiamo ai significati legati al cibo, al corpo nudo, ad esempio quando aiutiamo una persona psicotica a fare il bagno. La nudità che è maschera che cade, l’intensità del gesto di lavare, di accudire. Gli operatori si trovano a vedere e toccare corpi (e quindi menti) in zone che generalmente sono avvicinabili solo grazie a rapporti affettivi particolarmente intensi, come quello della madre che cura il bambino. E ancora, di notte, pensiamo all’intensità del gesto che accompagna al sonno, al momento del distacco, alla perdita di ogni controllo che è il luogo del sogno, il regno di Morfeo. Pensiamo al risveglio, alla necessità per gli psicotici di trovare scopi per muoversi dai propri letti, al fatto che il risveglio significa “tornare”, ancora una volta, in qualche luogo del mondo.

Contenzione: esercizio di potere o spazio relazionale?

Ancora, per ciò che concerne la specificità del ruolo infermieristico, credo sia importante soffermarsi sulla faccenda della contenzione. Per anni, in epoca manicomiale e tuttavia ancor oggi, la contenzione fisica e quella farmacologica sono state autentiche frecce avvelenate all’arco dell’infermiere. L’uso di tali pratiche (per intenderci, l’abuso della contenzione per mezzo di presidi meccanici, un tempo le camice di forza, oggi le fascette con cui si lega una persona al proprio letto, oppure l’abuso di farmaci sedativi) è indubbiamente ancora oggi troppo frequente: se è vero che da una parte sia l’uso delle fascette che la somministrazione dei farmaci deve avvenire dietro ad una prescrizione medica, è anche vero che dall’altra spesso si vive una situazione di deregulation organizzativa dove tali pratiche sono appannaggio dell’infermiere che ne fa uso spesso e impropriamente. Una ricerca condotta da un collega, Duilio Loi, ha mostrato come la causa principale per cui si contiene per mezzo di fascette è da ricercarsi nella mancanza di formazione, e quindi di una coscienza professionale che sappia proporre un’alternativa a questo mezzo. Inoltre, sia detto per inciso, se è vero che la professione infermieristica sta da qualche anno discutendo circa l’eticità nel compiere atti contenutivi meccanici, credo che sarebbe opportuno incominciare a chiedersi se l’infermiere non debba iniziare a riflettere sul significato che ha somministrare i farmaci e pensare se non sia il caso, in determinate condizioni, di dire addio a questa mansione storicamente a noi tanto cara ma anche carica di significati che hanno a che fare con il controllo, la disciplina, il potere.

In definitiva credo che l’infermiere debba imparare a sviluppare una sorta di capacità preventiva: in questo gioca un ruolo centrale ciò che definirei il contenimento relazionale, ossia creare un rapporto tale per cui lo psicotico trovi un luogo relazionale sicuro ove riporre le proprie istanze senza che ad esse venga fornita un’immediata risposta repulsiva (cioè le forme di contenzione).
La funzione del contenimento presuppone l’esistenza di un limite, di un confine il quale ha in se diverse caratteristiche simboliche.
Il confine è sinonimo di frontiera, e in frontiera ci sono spesso le guerre. Il confine è però anche il margine di qualcosa, e uscire dai propri margini significa anche essere in grado di calarsi nei margini altrui, carpendone i simboli.

Lo scenario dei confini e dei margini, inoltre, presuppone due attori: chi sta dentro e chi sta fuori. Chi sta dentro vive un contenimento se chi sta fuori riesce, calandosi nei margini, a creare potenziali trasformazioni. Subisce una contenzione se chi sta fuori invece repelle, respinge in riserve. Infatti frontiera deriva da fronte e fronte, etimologicamente significa “verso”, “contro”.

Quando vengo invitato a parlare in giornate di studio racconto spesso un aneddoto sugli Aborigeni d’Australia, perché mi sembra esemplificativo di quanto ho appena detto.

Gli aborigeni d’Australia sono popolazioni che vivono in una condizione di semi – nomadismo. Si spostano in continuazione e, talvolta, si fermano per alcuni periodi in un luogo. Gli aborigeni d’Australia, quando si fermano in un luogo, non segnano confini, non tracciano solchi, non mettono fili spinati. Quando si fermano in un luogo mettono tavolette di legno attorno il loro accampamento al fine di delimitare un confine temporaneo e reversibile, comunque valicabile, dove si possa uscire ed entrare, prefigurando giuste distanze per vivere scenari di continua trasformazione.

Infine, per l’infermiere si pone la questione del ruolo all’interno di uno staff multidisciplinare integrato, anche qui per l’infermiere si pone una sfida. Sia storicamente, ma anche nella formazione di base, l’infermiere si abitua a lavorare da solo. Ha rapporti stretti con il medico, visto per lo più in funzione gerarchica, che in genere gli deve dire cosa fare ed ha una serie di sottoposti, ai quali delega una serie di funzioni. Se noi trasliamo questo modello (un autentico modello – imprinting per l’infermiere) all’interno della realtà psichiatrica, possiamo subito vedere i rischi che si corrono. Conflittualità, difesa di un pezzetto di potere, scetticismo rispetto alle altre figure (quelle storiche e quelle emergenti) sono dietro l’angolo, pronte a riproporre anche all’interno dello staff un meccanismo di frammentazione.

Imparare narrando, alcuni resoconti clinici

Descriverò di seguito due resoconti clinici che ci vedono impegnati nella nostra realtà lavorativa, nel tentativo di illustrare una parte del lavoro che stiamo facendo, anche e specialmente alla luce degli stimoli che ho ricevuto dallo studio del contributo teorico di Zapparoli.

___________________

Mirella è una donna di 30 anni. Ha studiato fino alle scuole medie, è alta un metro e sessanta, pesa circa 85 kg e ha tratti tipicamente mediterranei. Vive in una sorta di condizione costantemente delirante: afferma di essere fidanzata con un medico ginecologo ricco e dotato di capacità fuori dal comune, di avere circa 130 lauree, di essere magra, alta, bionda e con gli occhi azzurri, di avere uno stretto rapporto confidenziale con Dio col quale comunica telepaticamente. Comunica telepaticamente anche con il fidanzato e, per mezzo di alcune riviste, gli indica gli oggetti che deve acquistare per il loro futuro insieme. L’area traumatica di Mirella è la famiglia che, esasperata, chiede prove realistiche di ciò che lei dice. Ecco che emergono i “segretini”, così come Mirella li definisce: non può rivelare a nessuno le sue certezze, che devono essere assunte in quanto semplicemente vere. Ciò che da sempre abbiamo fatto è stato quello di creare un ambiente, attorno a Mirella, che accettasse questa sua vita così piena di segreti. Solo questo ha fatto sì che tra Mirella e lo staff si producesse un rapporto di fiducia e di presa in carico dei suoi bisogni. Tuttavia, l’ambiente comunitario presuppone per Mirella un continuo confronto con la realtà, vissuto nei primi tempi con profonda angoscia, perdita del senso del limite, una sorta di “diluizione mentale” che la stava portando verso una deriva regressiva. Abbiamo così pensato, fra le altre cose, di lavorare sulla parte sana e funzionante della sua persona. Questa parte emergeva spesso e si manifestava con la messa in discussione, da parte sua, di tutte le sue certezze deliranti, di tutti i suoi segreti, arrivando addirittura a discuterne con profondissima angoscia ed a doppio registro, con due parti mentali a cui il suo corpo dava voce: l’una sosteneva le certezze deliranti, l’altra le metteva in crisi e minacciava di rivelare i suoi segreti.
Accanto all’ambiente che accetta i segreti e i deliri, abbiamo così creato un piccolissimo ambiente dove Mirella potesse far funzionare la sua parte sana, desiderio che ci sembrava emergesse fortemente durante queste sue crisi, un ambiente dove potesse disvelare il più grande dei segreti: una vita “normale”. Due volte alla settimana, infatti, Mirella si incontra con un operatore il quale supervisiona il suo lavoro di scrittura circa i gesti che compie ogni giorno. Durante questi incontri i deliri non si manifestano mai e Mirella, dopo un primo periodo in cui le veniva dettato ciò che doveva scrivere, è arrivata ad autodettarsi i propri argomenti, a dirseli in sostanza, accettandoli come parte della sua vita e disvelandoli all’altro. Ciò ha avuto delle ripercussioni positive anche sullo sviluppo di un maggior senso del limite ed ha contribuito a fare da barriera alla deriva regressiva ed alla manifestazione delle crisi di panico e di angoscia.

Luca Littarru, via Petrarca 11, 27010, Cura Carpignano, (PV)
[email protected]

Illustrazioni in ordine di presentazione:
Jackson Pollock
– Untitled 1950-51
– Untitled (animals and figures) 1942
– Number 29 1950