L’infermiere dentro la storia (2°parte “I conflitti mondiali”)

La professione tra passato, presente, futuro. Presentiamo la seconda parte della relazione presentata da Marisa Siccardi al XXIV Congresso ANIN a Rimini 10, 11, 12 Aprile 2003. Marisa Siccardi, ci racconta in queste pagine la storia dell’assistenza infermieristica attraverso i due conflitti mondiali.

Marisa Siccardi

Generale, il tuo carro armato è una macchina potente spiana un bosco
e sfracella cento uomini, ma ha un difetto: ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente vola più rapido d’una tempesta
e porta più di un elefante, ma ha un difetto: ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto può volare e può uccidere, ma ha un difetto: può pensare.

Bertolt Brecht

Assistenza ed emancipazione femminile

Verso la fine dell’Ottocento, come nei primi anni del Novecento, le Leghe sindacali infermieristiche tramite la loro Federazione, portarono avanti la lotta per il miglioramento delle proprie condizioni di vita, dal punto di vista lavorativo e civile e per quello dell’assistenza ai malati, tramite la formazione. I movimenti femminili s’impegnarono per l’emancipazione della donna: in quel periodo emerse infatti con maggior vigore che in passato,la questione femminile, soprattutto in virtù del processo di industrializzazione che vide coinvolte un numero crescente di donne.
Tuttavia, se l’emancipazione femminile, pur con molte resistenze, si fece strada tra la borghesia, nelle classi popolari stentò a decollare.
Per quanto riguarda le infermiere, è comunque significativo che anche persone illuminate, come Anna Fraentzel Celli, si trovassero allineate con il mondo medico nel ritenere la professione infermieristica un attributo fisico e fisiologico della donna, con preciso riferimento al modello inglese.
La stessa Commissione Ministeriale istituita per promuovere la riforma dell’assistenza e che fece capo al Presidente del Consiglio Nitti (1919), si riferì essenzialmente al modello Nigtingale, con tutti gli aspetti positivi dell’evoluzione professionale, ma anche con quelli che contraddicono l’emancipazione femminile. Infatti, con l’obbligo dell’internato e la rigidità (non solo rigore!) organizzativa che, di fatto, impedivano la partecipazione alla vita sociale, nessun uomo avrebbe accettato simili imposizioni.
Dalla fine dell’Ottocento sorsero inoltre le Società di Mutuo Soccorso operaie, particolarmente attive in Piemonte, in Liguria ed in Toscana, sia d’ispirazione mazziniana che socialista. In esse figurarono infermieri e ostetriche, che solidarmente e gratuitamente, posero al servizio della collettività le loro conoscenze e l’esperienza in campo professionale.[1]

Il tributo pagato da medici ed infermieri durante il colonialismo

In una apparente nazione riappacificata, nel 1884 iniziò ad affermarsi il principio della conquista coloniale che si tradusse, dapprima in sordina e poi esplicitamente, in interventi espansionistici, sino alla sconfitta di Adua del 1 marzo 1896. Per ora si può solo supporre quali prestazioni sanitarie, medico-infermieristiche fossero offerte ai militari, laddove neppure la stessa organizzazione militare aveva saputo valutare a priori l’entità dell’impatto della resistenza indigena, nella zona di espansione tra l’Eritrea e l’Etiopia.
Più ancora, ci si deve chiedere se e quale tributo abbiano pagato in quel contesto medici e infermieri, com’era accaduto in altre Guerre, all’impatto climatico ben diverso da quello italiano e a tutte le variabili bio-fisiche ad esso legate.
Per comprendere la rilevanza di ciò che affermo occorre ricercare, ad esempio, nella storia epidemiologica delle malattie infettive e delle patologie prevalenti dell’epoca considerata. Infatti si ricorda che “ secondo i dati di Netter in Irlanda dal 1818 al 1843 si ebbero tra i medici 568 casi di tifo e 132 morti, ossia il 46% dei casi e il 10.5% dei morti: 199 ne dettero dal 1843 al 1848. Durante la guerra di Crimea morirono di dermotifo 80 medici militari e in 57 giorni ammalarono 603 infermieri su 840. Nella guerra russo-turca morirono nell’Ospedale di Jassy 7 medici su 8 e il 79% degli infermieri, in un altro Ospedale, 60% dei medici, 80% degli infermieri e tutte le suore: a Simlitzi, a Sistowa, a Rasgrad, per tre volte venne rinnovato il personale ospedaliero, colpito in totalità dalla malattia: a Bela ammalarono 16 medici su 18.
Anche in Tunisia i medici francesi di colonizzazione pagano ogni anno il loro contributo al tifo esantematico: casi di dermotifo si ebbero pure tra i medici militari e borghesi durante la recente guerra in Tripolitania. Così in Austria nel 1914, dal principio della guerra furono constatati 469 casi di dermotifo: nel gennaio 1915 furono denunziati 1391 casi, nel febbraio 1219 denuncie e 793 fino al 20 marzo; casi quasi tutti importati dal teatro della guerra austro-russa; in Germania 29 casi denunciati nel gennaio, 60 nel febbraio, 50 sino al 20 marzo 1915. Anche in Germania morirono parecchi medici per dermotifo. Numerosissimi casi furono constatati in Serbia con numerosi esiti letali fino a 60 al giorno, tra cui molti medici addetti alla cura dei malati e dei feriti”.[2]
Quale poteva essere il senso della guerra degli infermieri che certamente erano dentro a questa impresa?.
Il pensiero della rivincita per Adua si materializzò, per il Governo Italiano, quasi all’inizio del Novecento (1911) con i giorni di Tripoli, ma neppure dal terreno di queste nuove guerre emerse la capacità di osservazione e di critica sociale infermieristica, senza per questo voler sminuire la professionalità sanitaria dedicata alle forze militari.
La moderna società di massa che si presentò all’inizio del Novecento, si caratterizzò nella demografia, nella politica, nella produzione e nei consumi, nella comunicazione e nelle nuove forme di arte. Ma fu ancora con la guerra, nell’utilizzo ad essa finalizzata – tramite la produzione bellica – di risorse naturali, economiche, scientifiche e tecniche che il Novecento introdusse il concetto e la prassi della guerra totale.
Per la prima volta, nella Grande Guerra, la potenza distruttiva della tecnologia venne sperimentata da eserciti di massa: contrapponendo così i suoi effetti a quelli dei rilevanti progressi umani, determinati dai processi di cambiamento che intervennero nel passaggio dal XIX al XX secolo, ne rallentò il percorso, talvolta anche con effetti involutivi:

Propaganda: persuasione palese e occulta

Metodi di persuasione palese e occulta pressoché comuni all’intera Europa belligerante, esercitarono il processo di coinvolgimento anziché quello di consentimento. La Grande Guerra presentò una connotazione particolare. Scrive su questo punto Antonio Gibelli:[3] “Nessuna guerra era mai stata tanto femminile come questa, nessuna, cioè, aveva richiesto in tale misura il contributo femminile in senso materiale (sotto forma di prestazione di lavoro e di responsabilità nella conduzione di famiglie e aziende agricole) e, contemporaneamente, aveva investito tanto sulle valenze simboliche del femminile, nonché delle capacità femminili di mediare e modulare i sentimenti, tanto quelli positivi (il bisogno di dolcezza, di protezione, di custodia) quanto quelli negativi (e non stupisce che tra le numerosissime associazioni femminili di sostegno allo sforzo nazionale italiano ve ne fosse una con il compito, si potrebbe dire, l’odio anti tedesco). Con qualche ovvia sfumatura di accenti, le pagine dei giornali femminili italiani presentano gli stessi inviti,le stesse esortazioni, le stesse associazioni di idee dei giornali per donne, infermiere o gentildonne della Gran Bretagna, culla del femminismo radicale.”
La propaganda a livello popolare si servì di ogni mezzo: appelli verbali, radio, manifesti, cartelloni, opuscoli, cartoline… Il fante di Achille Mauzan (pittore francese), con il dito puntato verso il passante, finì con l’inondare l’intera Italia per promuovere e incentivare il prestito per la guerra. Gibelli definisce “L’uomo con il dito puntato (…) una delle più efficaci metafore di quella modernità che investì simultaneamente tanto i mezzi di distruzione quanto quelli di comunicazione, di produzione e di controllo dei sentimenti, in una società in via di massificazione dominata dal mito dell’organizzazione scientifica, dalla produzione in serie, dall’intercambiabilità funzionale “.[4]
Nella serie di opuscoli dei “problemi italiani”[5] ne “ I danni economici della neutralità”, si giunse a trattare in dettaglio i presunti benefici derivanti dalla partecipazione alla guerra, ad iniziare da quelli economici, post bellici e spiegando in modo molto convincente come la non partecipazione alla guerra sarebbe stata senza alcun dubbio fonte di disoccupazione (sic!) e di miseria.
Tuttavia, dalle stesse fonti pubblicitarie del periodo 1915-1918 apparve, quasi lapsus, l’altra faccia della medaglia (la verità sulle conseguenze della guerra), riprodotta ad esempio nei consigli per l’alimentazione e la difesa della popolazione civile in tempo di guerra [6] che si riscontrano nella collana dedicata ai “Problemi sanitari di guerra”.
L’uomo dal dito puntato ebbe lunga vita, si moltiplicò anche dopo la guerra nelle diverse espressioni sociali, venne poi clonato per reclutare adepti nazi-fascisti, militari dell’Armata Rossa, dell’esercito inglese e poi negli USA…. Questo fatto mette in rilievo l’importante elemento di modernità costituito dallo sviluppo e dalla contaminazione dei linguaggi della pubblicità e delle propaganda, “tra consumo di oggetti e consumo di emozioni che la guerra sembra promuovere. La stessa guerra diviene un evento pubblicitario a risonanza mondiale…” [7]
Per inciso, si può affermare che tutto questo si evidenzia in misura ben maggiore oggi, dove: diffusione, ampliamento, moltiplicazione, riduzione, ritocco, “copia e incolla…” delle stesse immagini a seconda del messaggio che si vuole lanciare, si presentano simultaneamente identiche agli sguardi umani dell’intero pianeta.
A causa della guerra anche il disegno di legge Luzzato del 1912 sulle scuole per infermiere non ebbe seguito e furono ancora una volta inascoltate le richieste dei movimenti femminili e della Federazione dei Sindacati degli infermieri. La Grande Guerra trovò quindi ancora impreparata e arretrata, rispetto a quella di altri paesi, l’organizzazione sanitaria italiana sul teatro di guerra. Sebbene anche agli ospedali civili venissero sottratti tutti gli uomini validi, l’impreparazione di ausiliari assegnati a quelli da campo e militari, e la massa del volontariato femminile accorsa al servizio civile e militare, non furono quindi sufficienti a impedire, ancora una volta, i disastri sanitari della guerra. Quanti, tra il personale sanitario, persero la vita in questo contesto non è ancora emerso. Mentre dall’esame della pubblicità del periodo considerato, appare che anche negli altri paesi dove l’organizzazione sanitaria e in particolare infermieristica era migliore (Gran Bretagna, Germania, Francia), continuò la promozione e l’idealizzazione della figura femminile ed in particolare di quella dell’infermiera (soprattutto in ruoli ancillari) pure nel cuore della guerra, nonostante l’impiego dei “soldati di sanità”.

Le epidemie da guerra

La verità della patologia da guerra e della guerra stessa in quanto malattia epidemica, trascritta in romanzi documentati e/o di esperienze vissute, ha varcato i confini di ogni paese e di ogni tempo (ricordo per tutti E. Maria Remarque: Niente di nuovo sul fronte occidentale). E’ però il contenuto del diario di un’infermiera tedesca[8] che, a distanza di quasi un secolo, infermiera uscita io viva da altre guerre, sento profondamente mio per essere passata in mezzo a ciò che ella descriveva: profughi, migranti, rifugiati, macerie, miseria, fame, violenze, malattie, ferite e morte. Nemici militari e civili di sponde opposte omologati nella disperazione e nella sofferenza. E il respiro, l’odore, il fetore, che emana dalle membra vive, dai vestiti luridi, dalle macerie sparse, dai cadaveri umani o dalle parti di esso e dalle carogne di animali saltati sulle mine. E l’espressione e gli sguardi, i pianti, i sorrisi, le parole e le grida degli attori principali del teatro della guerra. Ma neppure si devono dimenticare i militari, i reduci: qualcuno dei quali fu ricoverato in ospedale psichiatrico.
A dispetto di chi propagandava il tornaconto della guerra, meningite celebro-spinale, encefalite epidemica, colera, tifo e paratifi e soprattutto la tubercolosi, si diffusero tra e con le truppe da una regione all’altra, senza parlare di altre malattie infettive contagiose (si ricorda anche una fortissima epidemia di vaiolo del 1919-20) e la presenza della malaria che riguadagnò terreno.
Nell’estate del 1918, in modo pressoché fulmineo, si diffuse in Europa la “spagnola”, violentissima epidemia influenzale che anche in Italia colpì le persone indebolite dagli anni di privazioni imposte dal conflitto. In pochi mesi vi furono 600.000 vittime, tante quante quelle provocate direttamente dalla guerra. La quasi totalità delle famiglie ne fu colpita: per citare un esempio, mia nonna paterna perse tre figli di minore età.
Il bilancio demografico complessivo registrò “un eccesso di circa 1.200.000 morti e un disavanzo di circa 1.500.000 nascite”[9].

I ritardi della riforma della formazione infermieristica

I ritardi della riforma finalizzata alla formazione infermieristica si trascinarono nel dopoguerra per alcuni anni, mentre molte infermiere volontarie tornarono alle loro case. Va inoltre sottolineato che, in Italia, a differenza degli altri paesi europei, dopo la prima Guerra mondiale vi furono sì isolati e iniziali regimi liberali, ma, per troppo tempo, l’assenza di democrazia, misure penalizzanti per le donne lavoratrici (sottopagate) e anche per le studentesse ( tasse più alte), nonché la campagna demografica che, prevalentemente nelle regioni meridionali, rafforzò l’analfabetismo femminile, tesero a frenare l’emancipazione delle donna.
Più volte si è discusso sulle cause della non adesione di massa alla professione infermieristica, ponendo l’accento o sulle condizioni sociali, di vita e di lavoro o sulla bassa qualità assistenziale fornita negli ospedali o, ancora, sull’eccessivo impegno richiesto per la formazione: intellettuale e fisico, dando di volta in volta un peso maggiore all’uno o all’altro di questi aspetti.
C’è però un’altra considerazione da fare: alla convinzione diffusa in quel tempo che solo donne potessero essere infermiere per vocazione innata, specularmente passò il messaggio che tutte le donne fossero naturalmente infermiere.
Allora, perché sacrificarsi, rinunciare al proprio ruolo sociale di donna, se questa propensione naturale poteva essere guidata e completata tra le mura domestiche?
Tra le diverse espressioni comunicative che riguardano le donne-infermiere (le stesse utilizzate per la propaganda della guerra), ho trovato un testo che, emulando quello della Celli, pur nell’intenzione di svolgere educazione sanitaria e di sopperire in parte alla carenza assistenziale infermieristica in ambito domiciliare, continuò a diffondere il messaggio dell’equivalenza donna-infermiera.
L’autrice, Anna Fischer-Duchelmann[10], medico dell’Università di Zurigo, era anche specialista per la ginecologia e la pediatria in Dresda. Sino dalla prefazione all’edizione italiana emerge che il libro è scritto per diventare ed essere infermiera.
Comunque la peculiarità del testo, evidenziata dall’autrice, consiste nell’educare all’autodifesa della salute a iniziare dalla presa in carico della scala dei bisogni umani di base, inclusa la sessualità, pur richiamando sempre il dovere del ricorso al medico nei casi in cui la sua presenza sia effettivamente richiesta.
E’ quindi nel lontano 1924 che l’autrice, con straordinaria modernità, scrive: ”…la nostra epoca ha iniziato la liberazione dall’autorità del medico di vecchio stampo imperante sulla vita e sulla salute, il popolo ha principiato a volersi aiutare da se’, e ogni medico intelligente, che miri a difendere gli interessi dell’umanità e non solo quelli della sua casta, saluterà con gioia questa aspirazione come un progresso salutare e l’asseconderà con tutte le sue forze.” (dalla sua prefazione).
Senza metafore né esibizioni volgari, illustra il corpo femminile anche nella sua nudità integrale, in un’epoca in cui, per il senso comune del pudore, ciò veniva considerato pericoloso: “…io ritenni che un’opera di questo genere dovesse fondarsi anche sui principi di estetica naturale ed esplicare un’azione emancipatrice ed elevatrice del nostro sesso purtroppo tuttora dominato dalla malattia, dai pregiudizi e dall’ignoranza”.
Il testo ben più completo e migliore dei pochi libretti per l’infermiere che circolavano nei primi decenni del Novecento, tratta della struttura e delle funzioni del corpo umano, dell’igiene in tutti i suoi aspetti, della prevenzione, della terapeutica in generale e di quella specifica materno infantile, con ricchezza di illustrazioni relative alle posture e alle varie tecniche assistenziali. Alcune illustrazioni simili, in divisa da infermiera e di religiosa, anzichè di donna di casa, le ho rintracciate solo in un antico, piccolo libro[11] già adottato presso la scuola milanese delle suore dell’ordine Sante Capitanio e Gerosa (di Maria Bambina), donatomi a suo tempo da suor Angela Gualla, fondatrice e Direttrice, nel 1955, della Scuola per Infermiere Professionali di Santa Corona, Pietra Ligure, che organizzò già allora con metodi moderni e avanzati.
Per riprendere ancora il concetto della partecipazione politica e sociale delle donne, sia all’interno delle istituzioni ospedaliere che tra le mura domestiche, si rileva che ben difficilmente le donne avevano la possibilità di socializzare. Potevano permetterselo ancora e soltanto alcune appartenenti alle classi borghesi e aristocratiche perché, anche nell’ambito familiare, delegavano ad una servente l’assistenza infermieristica e le cure maternali (baliatico, allevamento del bambini, assistenza agli infermi) e di utilizzare e gestire quindi il proprio tempo libero.

Gli infermieri nel regime

Negli anni del dopoguerra ripresero in Italia le ondate migratorie verso Ovest: Francia, Belgio e, soprattutto, le Americhe (USA, Argentina,Uruguay, Venezuela …); partivano i bastimenti stracolmi di esseri umani e nelle stazioni marittime, principalmente di Genova e di Napoli, ferveva il lavoro di medici e di infermieri, mentre le grandi compagnie di navigazione attrezzavano le navi più grandi e migliori anche con un Servizio Sanitario per l’equipaggio e i passeggeri.
Intanto, di pari passo con l’evoluzione della medicina, continuava il dibattito sulla pessima qualità delle cure e dell’assistenza ospedaliera, ma furono in realtà le operazioni coloniali a polarizzare l’attenzione di parlamentari e di governo: iniziate nell’inverno 1921-22 con il Ministro Giovanni Amendola e continuate dal Governo Fascista, con l’appoggio incondizionato del Re, fino alla vittoria finale del 1931 (…Vittorio Emanuele III, Re d’Italia e d’Albania, Imperatore di Etiopia).
In realtà la conquista dell’Etiopia seguì all’annientamento della resistenza libica, condotta con metodi brutali, con notizie censurate, scarsa propaganda e senza ripercussioni internazionali (nel frattempo la Francia vinceva la resistenza marocchina).
Si tratta quindi di una delle guerre dimenticate condotta integralmente con metodi fascisti, perché la deportazione e lo sterminio dei seminomadi della Cirenaica non sarebbe stata possibile altrimenti. Sugli effetti sociali di queste guerre tacciono i medici e gli infermieri italiani della CRI che presero parte alle spedizioni.
Ma è soprattutto la conquista dell’Etiopia la vera e totale guerra fascista, di cui Mussolini, con spregiudicata abilità politica, ne fu protagonista decisionale assoluto, con un imponente impiego di uomini e di mezzi, senza limite di spesa, con una pubblicità a tutti i livelli, in ogni settore della vita pubblica per conquistare l’adesione popolare: “la guerra d’Etiopia fu presentata e sentita come la guerra del Duce e della nuova Italia…”[12] Trasformata quindi, sino dalla fine del 1934, in guerra nazionale.
Le infermiere di CRI comparivano nelle parate militari e la loro istruzione, condotta da infermiere professionali, era volta a sostenere il mezzo milione di uomini impiegati in Africa Orientale.
Mi sono soffermata sulle guerre coloniali, perché in Italia gli studi antropologici di tale periodo sono in notevole ritardo rispetto alle ricerche e alle analisi che provengono da studiosi dell’Africa Orientale.
Come sottolinea Leele Gandhi[13], in Italia non sono state ancora investigate compiutamente le complesse relazioni di dominio, ma anche di complicità con il regime, né le contestazioni di coloro che hanno subito la colonizzazione.
Mancano le testimonianze di medici e di infermiere al seguito delle truppe coloniali, alcune delle quali pluridecorate dal regime fascista: che non possono non avere almeno visto, come è accaduto a Corpi sanitari degli altri paesi e come avviene pure oggi, gli effetti dell’impatto della guerra sui combattenti e sulle popolazioni civili e sulla loro salute.
Né, tanto meno, essere state completamente all’oscuro delle condizioni miserevoli in cui erano tenuti i prigionieri, militari e civili (fatta eccezione per il campo di Danane, Somalia, diretto dal colonnello Eugenio Mazzucchetti), e neppure delle esecuzioni sommarie (anche con decapitazione) e, soprattutto, dell’impiego sistematico di gas asfissianti (iprite), dal dicembre 1935 fino all’ottobre del 1939. Esistono fotografie di Infermiere della CRI con maschere antigas, durante esercitazioni di quel periodo.
Nella sezione storico-antropologica della Rassegna Internazionale del Film di Documentazione Sociale, svoltasi a Firenze dal 15 al 21 Novembre 2002 (43° Festival dei Popoli), sono stati inseriti prevalentemente documentari propagandistici del Regime fascista e altri, ancora pressoché censurati in Italia, relativi ai crimini di guerra a danni delle popolazioni civili di Libia, Grecia, Jugoslavia ed Etiopia: nei documentari compaiono anche testimonianze sugli effetti dell’uso dei gas nervini in AO, prodotte da medici e infermiere della Croce Rossa Svedese[14] .
Per ragioni politiche e militari, forse per porre freno alla temuta avanzata comunista, a differenza di quanto accaduto in Germania e in Giappone, nessuno dei 1.200 alti gradi militari italiani ritenuti colpevoli di crimini di guerra, (per l’AO si ricordano i Generali Graziani e Badoglio, per la Jugoslavia i Generali Roatta, Ambrosi, Birolli e Cortese), al termine della seconda guerra mondiale apparve mai innanzi a un tribunale. Vi fu un solo capro espiatorio, il generale Bellomo, il più umano e l’unico antifascista, che venne giustiziato dagli Inglesi.
Per quanto riguarda la compagine infermieristica, si ricorda che l’Italia fu estromessa dal Consiglio Internazionale delle Infermiere (ICN) nel 1929, perché l’associazione italiana risultava dipendente da un’organizzazione politica (fascista), mentre dopo la finale conquista dell’Etiopia, sul finire del 1937, l’Italia fu estromessa dalla Società delle Nazioni.
Risultavano tuttavia, tramite la pubblicazione de”l’infermiere d’Italia”, rapporti tra il Sindacato Fascista Infermiere e l’ICN , anche con apprezzamenti lusinghieri per l’evoluzione infermieristica italiana, apparsi su un articolo di”The American journal of Nursing” [15].
Tra le infermiere che durante il periodo fascista ebbero un ruolo di rilievo, emerse Emma Mazzolari, Caposala, Direttrice di più scuole sia al nord che al sud d’Italia, partecipò alla guerra 1915-18, a quelle d’Africa e alla seconda guerra mondiale. Nel 1948 fu insignita della medaglia Florence Nightingale del Comitato Internazionale della Croce Rossa: l’onorificenza più alta assegnata a infermiere. In una circostanza in cui mi trovai in sua presenza, ricordo Italia Riccelli che ne parlava con molta stima.
La Mazzolari fu pluridecorata e insignita anche con: Medaglia della III Armata; Campagna Africa Orientale con gladio; SNOM; Croce al merito di I classe e medaglia d’argento: testimonianze inequivocabili della sua partecipazione sui fronti di guerra, in veste di infermiera militare di alto grado.
I venti delle guerre soffiarono con maggior vigore con la guerra di Spagna, suscitata dalla rivolta nazifascista, sostenuta in primo luogo dalla Germania hitleriana e dall’Italia di Mussolini, contro il regime spagnolo repubblicano eletto democraticamente: prologo all’esplosione delle Seconda Guerra mondiale che, più ancora della prima, provocò fame, malattie, distruzione, disoccupazione, delinquenza e povertà.
Anche in questa, medici e infermieri/e di ogni paese belligerante si prodigarono negli ospedali e sui fronti, e possono ritrovarsi negli elenchi ufficiale dei vivi e dei morti.

L’assistenza infermieristica clandestina

C’è però una parte di essi, sia pure minore, che, soprattutto in Italia, non solo non compare in alcun elenco ufficiale ma, talvolta, neppure tra le carte e le fonti più disparate, bensì soltanto nelle testimonianze orali.
Oltre a chi prestava soccorso dopo i bombardamenti, si tratta di mettere in luce coloro che collaborarono con la Resistenza, nelle stesse formazioni partigiane o al di fuori, nelle case di montagna, nelle infermerie, negli ospedali di città.
A fronte della conflittualità di gruppi di bande afferenti a ideologie diverse, del resto limitate ad alcune zone del paese e sebbene in qualche raro caso finite tragicamente (vedi vicenda della Brigata Osoppo), mi sembra opportuno ricordare, anche in questa sede, più ancora della collaborazione delle diverse brigate partigiane, l’assistenza infermieristica clandestina a opera di religiose/i e di laici prestata senza alcuna discriminazione di sorta nel territorio ligure.
Tale realtà è misconosciuta, in primo luogo per la naturalezza e la semplicità con cui queste suore-infermiere seppero affrontare grandi rischi.
Ricordo suor Irene Roa, direttrice dell’ospedale civile di Triora (IM), nella zona di operatività della IX Brigata Garibaldi e, per averle conosciute personalmente, presso gli Istituti Ospedalieri Santa Corona in Pietra Ligure (SV), le suore dell’Ordine delle Sante Capitanio e Gerosa, in quello che dal 1943 al 1945 fu il territorio di operazioni dell’intera Divisione Garibaldi della Seconda Zona Ligure[16]. In questo ospedale, soprattutto dopo che i nazifascisti prelevarono dal letto ove era ricoverata una ragazza ebrea, Sara Dona, di sedici anni, per deportarla in un campo di concentramento e di sterminio in Germania, si creò un forte movimento di Resistenza.
In particolare, ricordo suor Arduina, già addetta al Pronto Soccorso, suor Artemisia, che allestì una seconda sala operatoria clandestina e che, in seguito, venne decorata con medaglia d’oro della Resistenza, suor Giovannina, suor Scolastica, suor Elvisa ed infine suor Teodolinda Capelli che al sorgere, nel 1955, della Scuola per Infermiere Professionali presso il citato Istituto, fu tra le prime allieve che si diplomarono e subito dopo, ff. capo sala presso i reparti scuola (con la contemporanea frequenza del Corso per AFD).
Solo molti anni dopo, durante una mia visita, innanzi al I° padiglione dell’ospedale, un tempo chiamato Elio, Suor Teodolinda, indicandomi le palme che lo fronteggiavano, mi confessò che un giorno, verso il finire della guerra, proprio lì davanti la fermò bruscamente un ufficiale delle SS il quale, indicando gli alberi, le disse con tono minaccioso:”State attente perché queste vi aspettano, ce ne è una pronta per ognuna di voi” con chiaro riferimento all’impiccagione. Per fortuna, la Liberazione giunta di lì a pochi giorni, impedì che il sospetto nutrito dal nazista, forse alimentato da qualche soffiata, assumesse concretezza di morte. Pure presso l’ospedale Civile San Paolo di Savona, si organizzarono équipe di medici e di infermieri che operavano anche all’esterno dell’ospedale, sulle alture circostanti. Tra gli infermieri si ricordano: Antonio Giusto, Natale Cioncolini, Giuseppe Ferrari, Domenico Castagnino, Dalmazio Biso. Tra le religiose, dell’Ordine di San Vincenzo: suor Assunta della IV sala chirurgica e suor Pia del reparto radiologico.[17]
Altro riferimento a me noto, quello della casupola di montagna adibito ad ospedale nella Valcona (Imperia), gestito dal dott. De Marchi di Savona, caduto nel 1944, e da due infermiere[18]

Le leggi razziali

Altro punto da indagare nella storia della nostra professione è quello relativo all’emanazione delle leggi razziali, permesse e sostenute dal Re Vittorio Emanuele III, e alla loro allargata diffusione che, in aggiunta alla guerra, arrecarono ulteriori,atroci sofferenze, a milioni di persone (ebrei, zingari, testimoni di Geova, comunisti ed altri oppositori di regime, omosessuali…) e, nel migliore dei casi, l’esilio.
Valga per tutte il ricordo di Federica Pittini, autorevole infermiera e dirigente ASV della CRI (anch’ella da me conosciuta personalmente) che, per motivi razziali, dovette lasciare l’Italia per alcuni anni.
Ve ne sono state altre? Qualcuna, forse, è finita nei lager nazisti, ma è difficile anche questa ricerca: ad esempio, presso gli archivi della Comunità ebraica di Firenze nonostante la disponibilità accordatami, non c’è stata la possibilità di rintracciare dati utili a questo scopo.
Così come, dal versante opposto, vi furono infermiere collaborazioniste, nel migliore dei casi quando trascrivevano, senza farne menzione con alcuno, i dati antropometrici rilevati dai medici nazisti che, applicando alle persone i metodi di valutazione impiegati per cavalli e per bovini, misuravano zigomi, nasi, narici e quant’altro, per stabilire se, anche per lontane generazioni, vi fosse un’ascendenza ebraica.
Non vi è alcun dubbio sull’opera meritoria compiuta dall’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia), spesso dimenticata, e per quella preventiva e terapeutica svolta con l’istituzione di preventori, di dispensari antitubercolari e di sanatori, montani e marini. Così come è da ricordare la campagna antimalarica con la bonifica di zone paludose e il ruolo positivo svolto in periodo fascista da infermiere, ASV e VI per l’educazione sanitaria e per la prevenzione. E’ però altrettanto vero che queste figure professionali e i servizi che le ospitavano, le cui immagini comparivano nei cinegiornali d’epoca, assieme ad altre forme reclamistiche erano volte a propagandare e ad amplificare gli aspetti trionfalistici del Regime, nascondendo quelli che testimoniavano brutture e brutalità e che condussero alle rovine finali della guerra.
Con la stessa fermezza e onestà, è altresì importante chiarire a chi, dal mare catto-destrorso della nostra professione, quasi colpito da folgorazione come San Paolo sulla via di Damasco, si svegliò all’improvviso più a sinistra dell’Est, che la provenienza da certe scuole non fosse – e non sia – l”equivalente di fascista, sradicandone il pregiudizio profondo e persistente in taluni, anche in tempi recenti.[19]
Con la stessa chiarezza, è però opportuno ricordare che nessun infermiere, nell’esercizio professionale volontario o retribuito, svolto a seguito degli eserciti, anche nelle retrovie, non può esimersi dal percepire, vedere, constatare cosa accade alla popolazione civile e ai “nemici”, perché i campi di battaglia, la linea del fronte che si sposta rapidamente, non sono terreni isolati ma luoghi di vita – non importa se nomade o sedentaria – trasformati in terre di distruzione, di violenza e di morte. In ogni guerra passata e attuale, i sopravissuti della linea del fronte, hanno costituito e costituiscono colonne di prigionieri e/o di profughi in fuga nell’uno o nell’altro senso. Quali esempi recenti mi sembra superfluo citare i popoli della ex Jugoslavia, della Regione dei Grandi laghi in Africa, del Medio Oriente con Palestinesi e Kurdi per primi e altri ancora.
Parlo anche per esperienza personale, e oggi non vi è infermiere di qualsiasi organizzazione umanitaria e sanitaria, dalle minori a quelle più autorevoli e note come Medici senza frontiere e Emergency, che non sia testimone attento, vigile, capace di vedere, ascoltare, intervenire professionalmente e testimoniare. Per questo sento il bisogno di conoscere come la Mazzolari e le altre valorose infermiere della CRI abbiano vissuto – se l’hanno vissuta – l’esperienza della guerra dalla parte dei vinti e, comunque, delle vittime civili e delle forze di resistenza all’invasione nazi-fascista che soccombevano a queste ultime.
Al pari di questo è necessario ancora sapere da fonte medica e infermieristica quale sia stata la loro esperienza in merito alla strage di Cefalonia e alla tragedia della Campagna e della ritirata di Russia, dove migliaia di soldati italiani persero la vita tra il gelo e la fame.
Sereno Armando, un vecchio pastore della Val d”Inferno di Garessio (Cuneo), dalla forte tempra di povero montanaro abituato ai disagi e alla neve, mi ha raccontato più volte come egli sia sopravvissuto al fronte russo, al lungo e avventuroso ritorno in Patria e alla successiva prigionia in Germania.
Il soccorso dei feriti caduti sul deserto ghiacciato, mi diceva che era praticamente impossibile: ”Chi andava con la barella, non tornava più indietro (…) tanto che gli ufficiali, se vedevano due di noi vicino a una slitta, ne distaccavano uno per mandarlo ad aiutare con la barella (…) Allora, quando ci trovavamo in coppia e da lontano si scorgeva l”ufficiale, uno seppelliva l”altro nella neve, perché sapevamo che non ci sarebbe stato possibile né dare aiuto, né fare ritorno”[20].
Nel periodo attuale in cui, relativamente a quello pre o post bellico e dell’intera seconda guerra mondiale, si aprono gli archivi segreti della CIA e del Vaticano, ritengo che da parte della CRI debba essere fatto altrettanto e, magari, rovistare nei cassetti tra le carte dimenticate per leggere e valutare relazioni e testimonianze. A meno che la censura, a vari livelli, le abbia alterate, omesse o addirittura cancellate.

[1] Pubblicazioni coeve, di cui conservo però fotografie, mi sono state sottratte indebitamente da ignoti, da uno specifico contenitore giù chiuso, nell’ufficio della sede ove ho prestato l’ultimo Servizio alle dipendenze dell’ASL, nel giorno in cui lasciavo il locale (Polo Didattico DUI, La Spezia). Sino ad ora non sono state ritrovate.

[2] Alessandro Lustig, La difesa della popolazione civile e altri problemi, Ravà e C, Milano, 1915, pag 21. (Il prof. Lustig era Senatore del Regno).

[3] A.Gibelli. Nefaste meraviglie. Grande Guerra e apoteosi della modernità; in Storia d’Italia op.cit. pag.557

[4] A.Gibelli, IVI, pag, 559; cfr anche G. Rubetti, La pubblicità nei prestiti italiani di guerra, Milano 1918, pag. 89 ct.da A. Gibelli.

[5] M.Alberti, Il fondamento della nostra guerra, Rava e C. ed.MI pag. 15.

[6] A. Lustig. La difesa, op.cit. cfr anche A. Herlitzka, L’alimentazione del popolo in tempo di guerra, Rava e C. ed. MI, 1915.

[7] A: Gibelli, op.cit. pag.561

[8] Adrienne Thomas. Caterina va alla guerra (Die Katrin Wind Soldat) Mondadori MI, 1931.Trad. E. Rocca.

[9] Cfr. G. Mortara. La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra. Laterza, Bari, 1925. Cit. da G. Cosmacini, op.cit. pg. 426.

[10] Anna Fischer-Duckelmann. La Donna Medico di casa. Carlo Pasta Editore-Libraio, Torino 1924. Trad. Carlo Calza e Gisella Purtscher. L’edizione italiana inizia con la citazione di Ippolito Nievo (Confessioni di un ottuagenario): “Le donne sono amanti,sono spose, madri, sorelle; ma anzitutto sono infermiere. Non v’è uomo così sozzo, così spregevole e schifoso, che lontano da ogni soccorso e caduto infermo,non abbia trovato in qualche donna un pietoso e degnevole angelo custode. (…) Se la donna non fosse intervenuta necessaria nella creazione come genitrice degli uomini, i nostri mali, le nostre infermità l’avrebbero richiesta del pari necessariamente come consolatrice. In Italia poi le magagne son tante,che le nostre donne sono, si può dire, dalla nascita alla morte, occupate sempre a medicarci o l’anima o il corpo”. Seguita, nella stessa prefazione, dal commento di Francesco Abba che sottolineava come tali parole scritte cinquant’anni prima, fossero “verissime e attuali”.

[11] Anche questo fu prelevato indebitamente da ignoti presso la sede di La Spezia, come da nota n. 18.

[12] Cfr. Giorgio Rochat. La guerra del Fascismo in Annali, 18, op.cit. pag 693-723. Dello stesso autore Guerre italiane in Libia e in Etiopia. Cfr. A. Del Boca Gli italiani in Africa Orientale, 4 vol. Laterza, Bari, 1988; Nicola La banca, Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002.

Cfr inoltre i documentari dell’Istituto Luce del periodo considerato.

[13] Cfr. Leele Gandhi, Postcolonial Theory, New York, Colombia University Press, 1998.

[14] Oltre ai testi citati relativi alle guerre coloniali italiane cfr. Augusto Cacopardo :Il rifiuto del passato, nella presentazione del 43° Festival dei Popoli cit.

[15] Cfr. L’associazione Regionale Lombardia Infermiere/i: 50 anni di storia, 1946-1996, a cura di Cecilia Sironi, pag. 45-50.

[16] Cfr. G:Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Istituto Storico per la Resistenza in Liguria, 1969, II, pag, 257, ct.da M: Siccardi, Viaggio nella notte di San Giovanni, Rosini,FI, 1993 pag, 122 e 220 (CISO, RE, 1978)

[17] cfr R. Bardello, Enrico De Vincenzi, Savona Insorge. Arsgrafica, Savona, 1972 pagine 318 – 323

[18] cfr Pietro Secchia, Filippo Frassati, Storia della resistenza. La guerra di liberazione in Italia 1943 – 1945. Vol 2°, pag 948.

[19] Per esempio, nel 1975, quando dalla Provincia di Firenze fui chiamata a far parte del Comitato coordinatore per l’organizzazione del Corso biennale di riqualificazione per Infermieri Psichiatrici, proposi , tra le guide formative (monitori) anche due-tre ASV molto affidabili sul piano professionale e impegnate su quello socio-politico: ci fu uno zelante collega che si precipitò dalle rappresentanze delle OO.SS dell’OP di Firenze per raccomandare loro di opporsi a una simile proposta, perché “le ASV di CRI erano tutte fasciste”(sic.!) e la mia proposta venne infatti respinta.

[20] Per inciso, ricordo che nella mia ricerca sull’assistenza tra e per i partigiani, uno di loro (Gastone Marri) mi raccontò di un suo compagno, gravemente ferito, che in Romagna fu salvato da anziane donne le quali, per arrestare l’emorragia, lo seppellirono nella neve e lo salvarono.