Morire per 1000 euro al mese

In Italia muoiono in media 4 persone al giorno sul lavoro, quasi 1600 persone in un anno; ma è da molti anni che dura questa carneficina e questo vuol dire che
solo negli ultimi dieci anni, fanno quasi 16.000 persone morte a causa del lavoro

Ada Masucci

A distanza di dieci giorni è morto ancora un altro operaio, il quinto, di quelli rimasti feriti il 6 dicembre a Torino per l’incidente verificatosi alla Thyssen-Krupp. Al telegiornale è una notizia flash, cioè una non notizia; passato il clamore dei primi giorni in cui telegiornali, giornali, programmi televisivi si rubavano l’attenzione dei lettori e dei telespettatori, questa morte passa in sordina, come le tante altre che quotidianamente avvengono in Italia per incidenti sul lavoro. Le statistiche nella loro freddezza sono agghiaccianti: in Italia muoiono in media 4 persone al giorno sul lavoro, quasi 1600 persone in un anno; ma è da molti anni che dura questa carneficina e questo vuol dire che solo negli ultimi dieci anni, fanno quasi 16.000 persone morte a causa del lavoro. Cifre da bollettino di guerra, peccato, come ha detto Giovanni Berlinguer, che i morti stiano sempre dalla stessa parte.

“Il lavoro nobilita l’uomo ma può anche ucciderlo”
Manifesto dei Cobas di Torino

L’episodio di Torino ha catturato l’attenzione di giornalisti e politici per il numero di persone coinvolte in colpo solo, ma forse, ha colpito anche perché Torino è una città che ha fatto del lavoro una sua forma di identità; tanto è radicata a Torino la cultura del lavoro che per i torinesi anche l’espressione artistica è lavoro. Torino, una città, i cui tempi di vita, dalle attività ricreative agli orari dei treni, erano in un passato recente dettati dalla fabbrica, la Fiat per eccellenza. Fa fatica oggi, Torino, a ricostruirsi una nuova identità, a perdere quella patina di città grigia, appiattita su una sola immagine, quella della Torino operaia. Un tempo c’era l’orgoglio della cultura operaia a Torino; questo fenomeno interessava in modo particolare la città, ma coinvolgeva anche i dintorni, la provincia: il nord-ovest. Grazie al lavoro delle fabbriche quest’area ha costituito nel nostro Paese una fonte di ricchezza, non solo per i proprietari, gli industriali, ma per tutte le famiglie; tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta Torino ha raddoppiato la sua popolazione, tanti erano gli uomini che arrivavano da ogni parte di Italia alla ricerca di un lavoro. Prima arrivavano gli uomini, poi in un secondo tempo anche le famiglie.

Oggi si farebbe fatica a riconoscere l’aristocrazia operaia a Torino quella che aveva tanta abilità e competenza nelle mani da essere in grado di fare i barbìs alle mosche! (fare i baffi alle mosche) come si diceva una volta.

Oggi le parole che vanno di moda nel lavoro sono flessibilità, globalizzazione, delocalizzazione, esternalizzazione. Parole dure che evocano sfruttamento, povertà su scala planetaria. Quando io ero bambina era ancora diffuso in Puglia il caporalato; i cafoni cioè i braccianti al mattino presto si facevano trovare sulla piazza del paese dove arrivava il caporale, un uomo che faceva da mediatore tra i padroni, i latifondisti, e i braccianti; costui offriva lavoro a giornate, come succede oggi per molti precari, e naturalmente lo dava a quelli che erano disposti a lavorare per poco, a quelli che pur di lavorare non esitavano a chiedere meno di altri compagni e ad accettare di lavorare anche per molte ore al giorno. La stessa cosa succedeva nel nord con le mondine.

Oggi non è cambiato nulla, anzi se un cambiamento c’è stato, è la diffusione a livello globale di questo fenomeno; quando una multinazionale sposta una fabbrica da un paese occidentale in un altro paese dell’est europeo o dell’est asiatico dove la tutela dei diritti dei lavoratori è minore, gli stipendi sono più bassi si parla di delocalizzazione, un brutto neologismo per esprimere una realtà antica come l’uomo: il caporalato, che vuol dire sfruttamento, povertà, minore attenzione ai diritti, anche i più elementari, quelli che, se non osservati, mettono a rischio la vita dei lavoratori, come probabilmente è successo alla Thyssen-Krupp. La prevenzione costa, la messa a norma degli impianti costa, tutto costa e questi costi fanno diminuire i profitti per i padroni e per gli azionisti e allora si delocalizza o si esternalizza e in quest’ultimo caso gli sfruttati sono tra di noi; il lavoro non si assegna a personale regolarmente assunto, ma si preferisce darlo a una cooperativa per esempio; in genere l’azienda non spende molto di meno, ma è meno vincolata in quanto non è tenuta a garantire tutta una serie di diritti dovuti al personale dipendente

Un esempio tipico, oggi, di lavoro mal pagato e precario è quello dei call-center. Già di per sé in Italia il lavoratore di un call-center è sottopagato, sfruttato, ma non basta; è solo di qualche giorno fa la notizia che una nota azienda italiana ha aperto un call-center in Romania; giovani rumeni che parlano italiano correntemente, alcuni di essi hanno anche vissuto in Italia, rispondono al telefono di un call-center per conto di un’azienda italiana, guadagnano 300 euro al mese! In Italia per quanto poco un dipendente di un call-center guadagnerebbe di più e quindi costerebbe di più all’azienda, allora… si delocalizza.

I morti sul lavoro di Torino sono anche il risultato di questa cultura che si spaccia per modernità. Alla cronica disattenzione dei politici italiani, della classe dirigente di questo Paese, verso il problema delle morti sul lavoro si è aggiunto il cambiamento indotto dalla globalizzazione dell’economia.

In Italia, è vergognoso dirlo, nonostante le cifre dei morti sul lavoro, non c’è a livello nazionale nessuna forma di coordinamento tra i vari enti, INAIL, ASL, Ispettorato del lavoro, ecc. che a diverso titolo, hanno competenze per la prevenzione degli incidenti sul lavoro.

Nessun governo che si è avvicendato negli ultimi anni ha avuto la capacità di mettere ordine in questo bailamme e allora se è pur vero che in prima istanza responsabili sono le aziende che non osservano le leggi, è altrettanto vero che esiste anche una responsabilità di chi è deputato a far rispettare le leggi.

Esiste una responsabilità politica in senso lato, esiste la responsabilità di aver lasciato che tutto andasse alla deriva, la responsabilità di non essere stati in grado di mediare e negoziare nelle sedi opportune a livello nazionale e internazionale il passaggio verso un’economia globalizzata. Tutto ciò che si sta verificando nel lavoro non è una catastrofe biblica voluta dal fato, ma è il risultato di scelte strategiche ben chiare e perseguite in ambito economico e politico da anni. Il lavoro non è più un valore, non è più cultura, non è più una cifra di riconoscimento e identità; il lavoro è semplicemente merce e le persone sono diventate risorse. Quand’ero piccola nelle pagine di geografia economica le risorse erano quelle agricole, i cereali per esempio; poi c’erano le risorse del sottosuolo, il carbone per esempio; ma le persone non venivano annoverate tra le “risorse”; si citavano le persone semplicemente indicando gli abitanti di un paese. Si parlava allora di sfruttamento delle risorse che davano ricchezza al paese; oggi si parla di “risorse” anche per i dipendenti di un’azienda, per i lavoratori e si pratica lo sfruttamento delle “persone risorse”.

Perciò non è sufficiente dire che ci saranno anche interventi di sostegno economico per le famiglie dei morti sul lavoro, la Regione Piemonte e i cittadini di Torino si sono attivati per raccogliere denaro per le famiglie; alcuni degli operai lasciano moglie e figlioli piccoli, anche di pochi mesi; non basta dire, come si è detto in occasione dei funerali dei primi 4 operai morti, “oggi è un giorno di lutto per Torino” perché tutti i giorni è un giorno di lutto per l’Italia visto il numero di persone che muore ogni giorno, senza contare quanti rimangono con lesioni permanenti e gravi, sempre per incidenti sul lavoro.

Vorremmo dai politici di tutto l’arco parlamentare un’assunzione di responsabilità maggiore che si traducesse in interventi concreti e non solo in chiacchiere da salotto televisivo. Le morti sul lavoro dovrebbero allarmare come un’epidemia e se non bastasse il senso di responsabilità a convincere i politici potrebbe essere utile calcolare quanto costa all’economia di tutto il paese far fronte alle spese per gli invalidi, per le famiglie dei sopravvissuti; forse questo è un argomento più convincente visti i tempi, l’importante è che si faccia qualcosa in meglio, naturalmente.