Produttività aggiuntiva la “sconquista” delle 48 ore

48 ore mensili invece di 36 questo è il risultato della produttività aggiuntiva che la nostra azienda (Azienda sanitaria fiorentina ndr) ci permette di fare nel periodo estivo, diventare schiavi del lavoro non è una grande conquista e va nel senso contrario al concetto di salute universale, amare la propria vita e quella degli altri invece sì.

Maria Grazia Fuligni

Il concetto di “salute” ha subito modifiche sostanziali negli anni recenti. Partendo dalla definizione generica e prettamente medica di assenza di malattia si è finalmente giunti ad inquadrare il problema in un contesto sociale più ampio dove, il raggiungimento dello stato di salute, prescinde dalla presenza di qualsiasi disfunzione psico-fisica e abbraccia un orizzonte più vasto fatto di vivibilità sociale e qualità del vissuto/vivendo.

In questo contesto l’infermiere, come promulgatore di salute, assume un ruolo molto più rilevante che in passato. Spogliato della sudditanza del mansionario può spaziare nella propria attività a trecentossessanta gradi senza eludere il proprio ruolo.

L’essere in salute è un concetto variabile, dipendente dalle caratteristiche della persona o comunità a cui viene applicato. Comprende caratteristiche universali invariabili come esaudire i bisogni fondamentali alla sopravvivenza del corpo e della mente e caratteristiche variabili e soggettive in base alla unicità di ogni essere umano.

Le attività dedicate all’aiuto del prossimo prevedono un carico di lavoro molto impegnativo che sovente mette in discussione anche la qualità della vita di chi le esercita. Promuovere la salute ed essere in salute dovrebbero andare di pari passo.

Senza voler entrare nel merito del quotidiano di ognuno di noi penso che ci siano comunque delle caratteristiche invariabili del nostro lavoro che sono frutto di lotte, studi e sacrifici portati avanti nel passato per rendere le ore passate con gli utenti più fruttuose possibili e, allo stesso momento garantire al lavoratore gli stessi diritti che la sua professione vuol trasmettere agli altri.

La “sconquista” (perché di sconfitta e non conquista si tratta) delle 48 ore mensili di produttività aggiuntiva che la nostra azienda ci permette di fare nel periodo estivo, vanno nel senso contrario al concetto di salute universale. Si passa dalle 36 ore settimanali alle 48 ore della prima metà del secolo scorso con turnazioni che farebbero ridere Stakanov. Ma se a lui dettero la medaglia a noi danno straordinari infiocchettati con qualche euro in più ed evitano che il problema della carenza/occultamento di personale venga alla luce. Diventa così appetibile un turno P/MN/N/P/P/P/M ecc… che in altri momenti ci avrebbe fatto gridare, giustamente, allo scandalo. E il riposo compensativo ideale di dodici ore fra un turno e l’altro non vale d’estate? Del libero ogni sei giorni, con il caldo, possiamo farne a meno? Non mi risulta che ci siano studi che vanno in tale direzione, anzi, tutto dimostra che il riposo, l’attività ludica e di relax fuori dal lavoro aumentino le motivazioni a svolgere nel migliore dei modi la propria professione. Inoltre, e non certamente secondario, come la mettiamo con la lucidità mentale che ci è richiesta nello svolgimento delle mansioni quotidiane? Diventa difficile credere che un infermiere, a maggior ragione se svolge la propria attività in una UO di area critica o con carichi di lavoro pesanti, riesca a mantenere la necessaria padronanza delle proprie azioni dopo un turno come quello che ho descritto in precedenza. E tale turno non è un’eccezione, provate a fare un po’ di calcoli e vedete un po’ come un turnista possa aggiungere 48 ore al monte ore mensili. Nella migliore delle ipotesi o si fulmina tutti i liberi o fa tre notti in più e due turni di giorno. Si può opinare che la produttività aggiuntiva non è obbligatoria. Certo, ma se esiste, vista la non brillante situazione economica generale., molti la faranno e avranno in busta quello che ci dovrebbe spettare ad orario normale.

Il periodo estivo è fisiologicamente quello in cui ogni lavoratore ha bisogno di rigenerarsi, di svagarsi, di ricercare i contatti sociali che durante l’inverno si assopiscono. Per chi ha figli è il momento in cui può goderseli senza il cappio degli orari scolastici e dei vari impegni invernali. Noi invece cosa facciamo? Lo trasformiamo nel periodo con attività lavorativa più intensa che nemmeno i quindici giorni di ferie (obbligatori perché qualcuno potrebbe saltare anche quelli) possono farci recuperare le energie necessarie. Come possiamo definirci operatori nella promozione della salute se facciamo di tutto per massacrare la nostra mente ed il nostro fisico? Cosa abbiamo da insegnare agli altri? E cosa trasmettiamo se non stanchezza e nervosismo? Ci metteremo mai intorno ad un tavolo con argomenti e serietà invece che continuare a venderci per pochi euro, comunque dovuti?

Diventare schiavi del lavoro non è una grande conquista. Amare la propria vita e quella degli altri si. Credo che sia il momento della ragione, del ripensare il nostro ruolo nella società. Un ruolo che rischia di sfuggirci di mano impastato e sfumato dalla creazione quotidiana di nuove figure che invece di affiancarci ci sostituiscono. E’ mai possibile essere così ciechi da non vedere più in là del momento? Cosa crediamo di ottenere tamponando situazioni di carenza del personale, oramai incancrenite, con la donazione del nostro tempo libero?

Dedicare tempo allo studio, al confronto con altre realtà lavorative, al miglioramento dell’assistenza, questi dovrebbero essere i nostri obiettivi. Molti di noi non riescono ad uscire dal circolo vizioso dei compiti lavorativi giornalieri e non riescono più a percepire il prossimo. Timbrare il cartellino è diventato un gesto automatico e assistere i pazienti (clienti?!?!) è diventato un gesto non meno automatico che avvitare un bullone in catena di montaggio. Non è così che mi sento infermiera. E quando dico infermiera non mi riferisco certo a tale professione in senso corporativo ma ad una delle tante figure che operano nella promozione della salute delle persone nel senso più ampio del termine.

Vorrei che quanto scritto fino ad ora fosse uno spunto di discussione. Pensare da soli non è mai giusto, si rischia di infangarsi nel più bieco individualismo che la nostra professione, in quanto d’interesse collettivo, non può tollerare. Ma ragionare ancora, fortunatamente, possiamo. Se continuiamo a pensare a forme di lotta tradizionali saremo sconfitti in partenza; sciopero non possiamo farlo poiché dobbiamo garantire il minimo servizio e, quasi in tutte le uo operiamo già quotidianamente con il personale al minimo, quindi occorre trovare altre forme e, soprattutto non sottostare al ricatto della produttività aggiuntiva.

Ricominciamo a parlare con le persone, soprattutto con gli utenti e non abbiamo timore di esporre in pubblico le nostre difficoltà ed il nostro sapere. Ma, soprattutto, ricominciamo a confrontarci fra di noi senza gabbie e pregiudizi. Cerchiamo di rendere il giusto valore alla persona.

Riferimenti fotografici:
Keith Haring
senza titolo 1983
Senza titolo (Le Mans) 1984
Senza titolo 1985