Quello che l’infermiere, e altri operatori, non dicono

Una riflessione sul “caffè” di Gramellini sul Corriere della sera del 19 novembre 2020 (link  allegato a fine articolo).

di Luciana Coen

Al solito quando leggo tali parole rimango stupita, allibita, arrabbiata, sconsolata e solo in parte gratificata. Perchè è l’annoso storico discorso sulla professione sanitaria in genere e in particolare su quella infermieristica che mi ha visto immersa per oltre 40 anni. Sarebbe da intitolare “Quello che l’infermiere (e altri operatori) non dicono”, ovvero siamo (stati) tanto bravi a narrare, spiegare l’aspetto tecnico scientifico specialistico del lavoro, ma quello che come ho tentato di dire sempre io, quello che lo identifica, la possibilità di tirar fuori e abitare e donare il proprio essere Uomo, umano, ancora rimane tabù, un non detto troppo presente-assente. Quello che fa sbalordire Gramellini e tanti come lui di fronte a una attitudine che è/deve essere insita non solo nella professione sanitaria ma nell’essere Uomo, da qualunque parte viva e qualunque cosa faccia. Ma sappiamo benissimo che a fronte della sconsolazione che la maggioranza esprime perchè viene meno il “contatto”, la”relazione”, altrettanti, pur facendo il medesimo lavoro, svolto adesso in una situazione di estrema criticità e complessità, non le hanno quasi mai praticate prima, usando gesti sbrigativi, arroganti, maldestri e parole distratte, rabbiose ecc. Resto, ahimè, della mia opinione, che ai corsi sulla relazione ecc. partecipano ormai quasi le stesse persone, che in qualche modo hanno assorbito alcuni concetti, anche se non sempre sono in grado o vogliono applicarli; che la sfida è sempre la stessa, trovare il modo di coinvolgere gli eterni assenti e scettici; che l’infermiere e il personale sanitario non medico deve narrare la dimensione relazionale, l’essere Uomo, essere umano significante il lavoro/servizio che sta svolgendo.

https://www.corriere.it/caffe-gramellini/20_novembre_19/infermiere-307d975a-29d6-11eb-884f-3aae855c458a.shtml