Utopia, disincanto, coraggio, amore, il molto povero, il professionista, la professione

Marcella Gostinelli

Con totale onestà e trasparenza confesso che ho dovuto riflettere a lungo per non cadere nella facile ipocrisia del “ben dire “sulla possibile relazione tra la professione infermieristica, il prendersi cura, ed il “Movimento”. Confesso che non è stato semplice perché la relazione, il rapporto, presuppongono sempre un movimento, una transazione, uno scambio di elementi e sostanze di cui la professione infermieristica in questo momento non è consapevole. Dovremmo poter scambiare con il Movimento e con ciò che il Movimento rappresenta, un po’ di “autentico potere” quello che si manifesta non imponendo agli altri, ma permettendo nuove possibilità per usare al meglio le proprie risorse , per soddisfare bisogni, obiettivi, desideri, per rendere “potenti” persone e comunità, per sentire di avere influenza e controllo su ciò che accade nella società, nel corso della propria vita, per percepire ciò di cui abbiamo più bisogno e poterlo esprimere e pretenderne la soddisfazione, se esiste un diritto per soddisfarlo. Peccato però che la professione infermieristica sia oggi più che mai rigidamente contenuta nella generale ipocrisia di chi dirige e dice che gli infermieri oggi sono finalmente dei professionisti ostentando una sostanza di consapevolezza propria del professionista che in realtà ancora non esiste, senza peraltro fare niente, né da un punto di vista organizzativo né culturale, perché il professionista infermiere possa, prima sentirsi e poi esprimersi come tale. Infatti,

nonostante siano passati dieci anni dalla definizione del Profilo infermieristico con il D.M. 739/94 , ancora molti infermieri non ne conoscono i contenuti e molti dirigenti non ne pretendono la conoscenza; nonostante sia stata istituita una figura di supporto alla professione infermieristica, una figura nuova sia per contenuti formativi che per spazi operativi, l’Operatore socio sanitario (OSS), questa viene inserita senza che vi sia una reale stratificazione di ruoli e competenze determinando così una equa distribuzione di attività tra l’infermiere e l’OSS; ciò che alimenta il conflitto nella migliore delle ipotesi , nella peggiore si comunica alla società che chi perde il lavoro in fabbrica può sempre andare a fare l’infermiera; affermazione quest’ultima che non può indignare i nostri Dirigenti in quanto assolutamente realistica perché nell’operatività e nei modelli organizzativi le attività sono appunto distribuite equamente, indipendentemente dal fatto che non tutto ciò che è assistenza debba necessariamente richiedere l’intervento infermieristico; nonostante la “Legge” parli di assistenza personalizzata, di obiettivi da raggiungere, ancora si assiste e si consente di assistere sfacciatamente, senza riguardi o premure per la persona assistita, per compiti indipendentemente da chi abbiamo di fronte , indipendentemente dalla unicità della persona assistita, che proprio in quanto unica porta complessità ed esigenze diverse e che si attende, per diritto, che i propri bisogni vengano soddisfatti con risposte diversificate, che tengano conto anche del proprio contesto di provenienza; nonostante la “Legge” definisca la professione infermieristica non più ausiliaria ed abroghi il mansionario si continua a servire i medici e si consente di farlo, con attività di tipo segretariale; nonostante sia stata evidenziata la natura relazionale –educativa della funzione assistenziale, ancora, per la rilevazione del fabbisogno del personale, non si tiene conto della complessità della persona assistita, oppure i modelli di lettura della complessità fanno ancora riferimento a variabili quali: la dipendenza e indipendenza genericamente intese; nonostante si parli tanto di cliente, evidenziando così una volontà di empowerment nei confronti del cittadino-utente e della sua salute intesa in senso solistico, in realtà del cliente non importa niente a nessuno.Quando poi che si rivolge al Servizio Sanitario è un cliente “difficile” come un emarginato, un senza tetto, uno zingaro, uno “molto povero” scattano modalità di atteggiamenti più o meno sereni più o meno disponibili ma che dovrebbero comunque essere atteggiamenti di presa in carico solidale perché queste persone hanno poche altre possibilità di trovare aiuto.

Questa riflessione ha riacutizzato in me un dolore, profondo e diffuso perché io amo la mia professione ed ho creduto per anni a chi socialmente, politicamente, strategicamente tanto bene la rappresentava, o credevo che lo facesse.Le contraddizioni vissute quotidianamente, le fallite ideologie sulla evoluzione reale della professione, l’impossibilità di una difesa della memoria storica, la convinzione dell’assolutizzazione del presente di molti colleghi che considerano ingenui utopisti coloro che, come me, ritengono di poter cambiare il mondo alimentano la mia tristezza e determinano forte demotivazione professionale.

Ora ha rifatto timidamente capolino nel mio cuore la mia maturità spirituale che mi ripete che la storia ha bisogno di utopia e disincanto insieme. Utopia per non arrendersi mai alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere.Come dice Brecht è necessario sapere che il mondo ha bisogno di essere cambiato e riscattato.

Come sostiene Ada crescere implica fatica “spirituale”, è vero, il risveglio spirituale ha la grande funzione di ridestare il senso dell’oltre, del poi, del miglioramento, ma è molto faticoso. L’utopia dà senso alla vita perché esige che la vita abbia un senso anche per chi apparentemente non ce l’ha e verso i quali abbiamo il dovere etico, anche come professionisti della salute di far Loro credere che la loro vita ha un senso, il loro senso.

Auspico che questi scritti così autentici rappresentino “il vento” spirituale utopistico per i troppi delusi sovraeccitati, come me ora, dal disincanto; i quali anziché esserne resi più maturi , alzano con supponenza la voce stridula per dileggiare ideali di crescita professionale, di evoluzione verso la solidarietà, l’uguaglianza e la giustizia, verso i diritti in cui avevano sempre creduto.

La dinamicità, il continuo mutare tra stato di incanto e disincanto richiede energia, coraggio e determinazione, virtù che oggi sembrano desuete.

Il coraggio di assistere con professionalità anche chi è “ difficile” ;

Il coraggio di dare non solo sostanza all’assistere ma anche forma, estetica all’assistenza del “fuori cultura” del “fuori dal mondo”.

Il coraggio di ricercare quella vocazione antropologica che caratterizzava la nostra professione e l’agire professionale senza per questo sentirci patetici.

Il coraggio di cercare una competenza che è essenzialmente forma dell’amore per l’uomo.

Il coraggio di usare parole come : amore, spirito, rispetto,uguaglianza e giustizia.

Il coraggio del professionista.