Aggiungi un posto a tavola

di Mariano e Siria De Mattia

Disegno di Siria De Mattia

Premessa

Nella nostra famiglia resiste ancora la prassi di sedersi a tavola con l’intento di nutrire il corpo e l’anima. Dunque, in questo tempo sacro sono banditi gli strumenti multimediali.
Nonostante Siria e Massimo abbiano un’età compresa tra otto e dieci anni, nelle nostre conversazioni spaziamo liberamente dalla politica al calcio, passando per le maggiori virtù ed i più comuni difetti del genere umano.

Durante i pasti non manca l’ironia ed è consentito (una volta a settimana) guardare un cartone o un film che incontri il gusto comune. Così, ci sembra che tutti i membri della famiglia abbiano l’opportunità di crescere; come figli, per l’effetto riflesso dall’empirismo genitoriale (quando e se coniugato alla coerenza esemplare) e come genitori grazie alla freschezza ed alla beata ingenuità di alcune affermazioni filiali. Come quando Massimo, il maggiore, espresse la sua “preferenza” in occasione delle ultime elezioni comunali. “Domenica bisogna scegliere il nuovo Sindaco”, dissi nel corso di una cena. Con parole semplici provai a descrivere la funzione e le capacità peculiari del primo cittadino. “Papà io sono sicuro, voto per la mamma”, affermò il maggiore senza esitazione! Non meno meraviglioso il tentativo di Siria, l’ultima nata, alle prese con una personalissima equivalenza linguistica: “Papà ma se in inglese cavallo si dice horse, orso si dice caval”?
Nel primo mese dell’anno, abbiamo avuto più occasioni per confrontarci. I fatti che ci hanno colpito sono accomunati dalla capacità di favorire o inibire i rapporti umani.

L’era social network

Una domenica pomeriggio, l’oratorio ci ha offerto la possibilità di riflettere sulla socializzazione nell’era dei social network. Uno spunto per individuare il migliore accesso al corridoio in cui si incontrano le generazioni di genitori e figli.
Due relatrici ed un relatore, tutti al di sotto dei trent’anni, conducevano l’incontro. La prima occasione di sussulto è stata la modalità con la quale si è presentata una delle relatrici: “Io sono nativa digitale”, riferendosi alla sua giovane età ed all’attitudine al multimediale. Sarà che per i miei cinquant’anni mi sento “analogico” ed ancora legato al mitico ricordo dei nativi americani, ma mi è parsa una definizione troppo algida per un contesto che si proponeva finalità umanizzanti.
Seconda e maggiore perplessità quando l’ultimo relatore, riferendosi alle attività della vita quotidiana, ha parlato di due possibili esperienze: quella virtuale e quella offline! Prima che me ne rendessi conto ero in piedi con tutte e due le braccia alzate per intervenire. In che momento della storia, reale ed offline sono diventati sinonimi? Perché la socializzazione mediata dai cinque sensi può essere riassunta col termine sconnesso?
In ogni luogo di transito e nelle sale d’attesa, mi sembra che avvenga esattamente il contrario. Ad essere offline è quella fiumana di uomini e donne che Michele Serra definisce “digitambuli”.

Una giornata memorabile

La seconda occasione di dibattito familiare c’è stata fornita dalla sfida tutta italiana in terra araba, in occasione della finale di supercoppa ospitata al King Abdullah sport city stadium.
L’occasione di una festa sportiva macchiata dall’assurdo precetto per cui alle donne è stato concesso l’accesso allo stadio a condizioni che accettassero il confinamento in uno specifico settore. Neanche fossero bestiame in quarantena! Durante la partita mi è tornata in mente una domanda che i miei figli mi avevano posto la scorsa estate: “Papà, ma tu vorresti vivere per un giorno la vita di Ronaldo”? All’epoca avevo sostenuto le ragioni del “no”, mentre la sera della partita ho detto il contrario: “Stasera mi piacerebbe essere al posto di Ronaldo per poter compiere un gesto simbolico”. “Quale, papà”, ha ribattuto Massimo. “Mi piacerebbe segnare il primo goal, correre verso il settore destinato alle donne e lanciare loro la maglia in segno di rispetto e solidarietà”. “Ma non si può fare” ha replicato Siria, pensando alla sanzione arbitrale prevista in questi casi. Ho spiegato loro che, nel mio immaginario, l’arbitro avrebbe apprezzato il mio gesto al punto da stringermi la mano e concedermi il tempo per indossare una nuova maglia, senza nemmeno ammonirmi.
Che giornata memorabile sarebbe stata per lo sport e per il mondo intero! Sembra trascorso un millennio da quando lo sport, allora capace di vicariare la società civile, seppe denunciare con gesti simbolici l’iniquità di alcune teorie sul genere umano. Restano indelebili i gesti degli atleti afroamericani Jesse Owen, Tommie Smith e Jhon Carlos. Il primo dei quali (ai giochi olimpici di Berlino del 1936) vinse quattro medaglie d’oro in sei giorni, disintegrò ogni record precedente e sfilò orgoglioso sotto la tribuna che ospitava Adolf Hitler costringendolo al più amaro dei riconoscimenti; la razza ariana non esiste!
Nella medesima competizione, svoltasi a città del Messico nel 1968, fu la volta degli altri due atleti che (classificatisi al primo ed al terzo posto nella finale dei 200 metri) salirono sul podio scalzi, ascoltarono l’inno nazionale chinando il capo e sollevarono il pugno guantato a sostegno del progetto olimpico per i diritti umani. Che gran virtù il coraggio delle proprie azioni, è quello che auguro ogni giorno ai miei figli. Il coraggio di scendere dalla giostra ogni qual volta ad offrire il giro è proprio mangiafuoco.

La forza di un abbraccio

La terza ed ultima esperienza è avvenuta alle casse di un negozio, mentre ero intento a pagare, dove ho notato una giovane donna ed i suoi figli sovrastati da due carrelli colmi. Ci siamo scambiati uno sguardo nel corso del quale le ho detto: “Certo a te il coraggio non manca”. Un grosso sorriso reciproco ed una pacca sulle spalle tra due sconosciuti sono stati l’espressione di un commento semplice e silente.
Qualche metro più innanzi ho notato la loro fatica fisica e mi sono offerto per un aiuto. “Ma che gentili che siete, fatevi fare gli auguri di buon anno”. Questa la replica di Mascha alla mia offerta d’aiuto. Non era ancora finita la frase quando è partito un reciproco, lungo e sincero abbraccio.
Compiaciuti da questa esplosione di socialità, abbiamo notato gli sguardi sorridenti e sorpresi dei nostri figli. Come è finita?
Che una famiglia napoletana ed una friulana hanno trascorso quaranta minuti a parlare, sorridere ed abbracciarsi al tavolo di un bar, con la promessa solenne di scambiarci un invito a cena presso le singole dimore.

Per cogliere lo stupore che può scaturire da uno sguardo, da una carezza e da un gesto non abbiamo un tempo infinito. O meglio, come recita il verso attribuito al poeta Mario De Andrade: “Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto di averne solo una”.
De Mattia Mariano