Il capochinismo mascherato

Torno a parlare di Capochinismo per la seconda volta in meno di un anno, per riflettere sulla sua versione aggiornata. Ricordo di aver utilizzato questo neologismo, per la prima volta, in un articolo pubblicato lo scorso anno sul settimanale Riforma.


Di Mariano De Mattia

Per chiarirne il significato, soprattutto a coloro che non hanno letto la pubblicazione in questione, ne cito un breve estratto.
“Nell’arco dell’ultimo anno, date le limitazioni imposte dai vari decreti, abbiamo scoperto di essere passate/i dalla chiusura degli spazi aperti all’apertura degli spazi chiusi. Quando parlo di chiusura degli spazi aperti, mi riferisco alla nostra capacità relazionale ante-Corona virus. Mi riferisco a quando eravamo liberi di andare ovunque senza incontrare nessuno, a quando avevamo occhi e sguardi solo per lo schermo del nostro cellulare, per cui qualsiasi luogo di transito come autobus, treni, metropolitane, sale d’attesa, ascensori, bar, ristoranti, pizzerie, erano scanditi da una presenza desertica dove nessuno parlava con nessuno. Ognuno era impegnato col proprio cellulare. L’era in cui eravamo chiusi negli spazi aperti, quella dell’altrove, dove l’altrove aveva sempre priorità rispetto al “qui ed ora”! Se si voleva parlare con qualcuno era necessario sperare di averne il numero di cellulare, essere distante qualche isolato ed imbastire una “comunicazione” a colpi di messaggi. Oserei dire che dopo romanticismo, illuminismo e decadentismo, siamo riusciti a creare il capochinismo! Di converso e per causa di forza maggiore, nel periodo della reclusione domestica, gradualmente siamo approdati nell’era dell’apertura degli spazi chiusi! Con ciò mi riferisco alla capacità di relazione sviluppatasi spontaneamente nei tempi dettati dal Corona Virus. Circostanza in cui, pur essendo obbligate/i in casa, abbiamo mostrato la capacità di incontrare chiunque. I balconi sembravano tutti affluenti di un’unica grande piazza in cui “incontrarsi e scambiare” vissuti”.
Ricordo che quell’articolo si concludeva con un’esortazione/speranza che oggi riassumo per semplificazione in forma interrogativa. Quando sarà nuovamente possibile godere degli spazi comuni, ci ricorderemo di alzare la testa, di sollevare lo sguardo dal cellulare per guardare verso e con occhi nuovi? Saremo capaci d’incontrare, con desiderio e gratitudine, quelle stesse persone con cui, nell’incertezza e nella paura, abbiamo imparato a scambiarci la vita dai balconi?
Dopo un anno, stando all’esperienza quotidiana personale, direi che purtroppo la risposta è no. Non siamo ancora riuscite/i a far spuntare frutti sui rami del disagio. Non abbiamo ancora mostrato la fame di relazione umana post embargo virale!
Non andiamo in giro cercando, con la sete di chi ha vissuto nel deserto, occhi ed interessi altrui. Ci siamo quasi rassegnate/i a considerare la mascherina, che ci copre al mondo, una parte costituente della nostra espressione.
Per cui, tutti nuovamente giù a capo chino sugli schermi dei cellulari che ci consegnano, nelle vesti di “prodotto gratuito” e anime vaganti, nelle mani di mercanti intenti a tessere la rete del profitto mediatico.
Benvenuti nel capochinismo mascherato!
Almeno nell’era del capochinismo smascherato era possibile osservare la mimica facciale che, coniugata all’escursione delle rughe e delle palpebre, poteva far intuire all’osservatore attento quali emozioni stessero attraversando la vita altrui. Ora anche la più audace e fantasiosa osservazione deve arrendersi di fronte all’evidenza; buona parte di ciò che narrano gesti e mimica resta imprigionata tra pelle e tessuto…in muta compagnia del flusso caldo umido dei respiri.
Ovviamente, questa non è un’istigazione a demonizzare la mascherina ed il suo uso. Più semplicemente vuole essere il rinnovato invito ad alzare la testa! Alzare la testa perché, proprio ora che gran parte dell’espressione umana è celata, assume rilevanza vitale la visione dello sguardo altrui. È ciò che ci resta, oltre le parole, per capire se e quanto sta andando veramente tutto bene.