l’infermiere dentro la storia, la professione tra passato, presente, futuro L’assistenza infermieristica dal dopoguerra ad oggi (3°parte)

L’ultima parte dell’infermiere dentro la storia parla dell’assistenza infermieristica dal dopoguerra ad oggi; L’autrice Marisa Siccardi (appartenente al CISO, Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospitaliera di Reggio Emilia) ci ha accompagnati, con il suo racconto, attraverso due secoli di storia. Il testo è tratto dalla relazione presentata al XXIV Congresso ANIN di Rimini 10, 11, 12 Aprile 2003.

Marisa Siccardi

Quel corpo che già fu una risata/ adesso brucia./ Ceneri portate via dal vento fino al fiume/ e l’acqua le riceve come resti/ di lacrime felici./Ceneri di una memoria in cui traluce una piccola / vita molto semplice, una vita senza storia, con/ un giardino, una fontana e qualche libro./ Ceneri di un corpo scampato alla fossa comune/ offerte alla tempesta delle sabbie./ Quando si alzerà il vento quelle ceneri/ si andranno a posare sugli occhi dei vivi./ E quelli senza saperne niente/ cammineranno trionfanti con un po’ di morte/ sul viso.

Tahar Ben Jelloun, Dalle Ceneri

La lunga marcia verso l’emancipazione della donna

L’immediato dopoguerra con il voto alle donne, la nascita dei Collegi professionali e il ritorno alla nuova vita delle Associazioni vide il sorgere di alcune nuove Scuole per Infermiere, ma non l’evoluzione autonoma della professione. Nonostante la partecipazione attiva di donne alla Resistenza e, ancora una volta, il loro impiego nelle realtà lavorative già appannaggio maschile (fabbriche, mezzi di trasporto ecc, in sostituzione degli uomini al fronte), l’emancipazione femminile stentava a decollare.

Il freno veniva in buona parte dal mondo cattolico e dalla Democrazia Cristiana che pure, tra le sue fila, durante la Resistenza aveva annoverato donne di valore, alcune delle quali hanno continuato l’impegno politico sino ai giorni nostri: ricordo per tutte Tina Anselmi.

Ma la negazione dei bisogni fisici come valore, privilegiando solo quelli dello spirito, con lo spauracchio del materialismo comunista e socialista, frenava il processo di emancipazione. Diversa la spinta degli altri due grandi partiti, Comunista e Socialista, che si scopre ripercorrendo le vicende di allora. In modo particolare furono i dirigenti del PCI che si adoperarono in questa direzione, mentre ancora per lungo tempo, ci furono resistenze, talvolta forti, nella base e in molte realtà territoriali, legate al contesto conservatore prevalente, in particolare nell’Italia meridionale e insulare.

Ancora nel 1955 Togliatti[1] ritornava sull’accusa di materialismo per legare a questo termine le rivendicazioni del lavoro, della casa, dell’acqua, del pane e dell’istruzione sottolineando che il diritto delle donne al lavoro e alla parità salariale erano elementi essenziali per l’emancipazione femminile.

E’ inoltre interessante evidenziare che sino dal 1945, all’indomani della Liberazione, lo stesso Togliatti[2], rivolgendosi alle donne comuniste, richiamava l’attenzione sull’importanza della famiglia rinnovata, senza più l’impronta feudale e sulla necessità di difenderne l’unità, per il suo valore solidale, per risolvere il problema dell’infanzia e per porre freno alla vergogna della prostituzione, dilagante là dove erano passati gli eserciti.
foto: Nicola Tito

Proprio al fine di risolvere i problemi sociali per i quali il coinvolgimento delle donne era indispensabile (come lo è oggi), in questo del 1945 e nei successivi discorsi alle donne, è ricorrente l’invito di Togliatti a collaborare efficacemente con le donne di altri orientamenti: socialisti e anche conservatori. Soprattutto, è pressante la sollecitazione a evitare contrasti e a cercare punti di incontro per promuovere la più stretta collaborazione con le donne delle organizzazioni cattoliche e della stessa Democrazia Cristiana. Egli affermò tra l’altro:”…se cercate bene nella storia del nostro paese, trovate che le sole donne che ebbero una loro personalità marcata, inconfondibile, furono delle religiose, come Santa Chiara (…) o come Santa Caterina (…). Non credo, dunque, che la religiosità delle donne sia la causa della loro arretratezza, come non credo che questa religiosità possa essere un ostacolo alla lotta delle donne per la loro emancipazione e per la democrazia, a meno, si intende, che non intervengano elementi di propaganda conservatrice e reazionaria estranei all’animo della donna e estranei anche al vero sentimento religioso.

“La vera causa dell’arretratezza delle donne italiana deve essere cercata nell’arretratezza dei rapporti economici e quindi nell’arretratezza dei rapporti civili che regnano nel nostro paese”.

Nello stesso discorso sono inoltre presenti i riferimenti alla positività di donne di altri paesi in Europa e in America, profondamente legate alla religione cattolica o a quella protestante,che si sono distinte sulla via del progresso civile e politico, rivestendo anche un ruolo importante nella vita del proprio Paese.

Il ruolo propulsivo della donna nella professione infermieristica

foto tratta dal n° 1-2005 de “L’infermiere”

Negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia emersero altre infermiere che ebbero un ruolo propulsivo nell’evoluzione della nostra professione. Ricordo per prime Anna Platter, Italia Riccelli e Rosetta Brignone. Negli stessi decenni sorsero nuove Scuole per Infermiere Professionali, inaugurate da autorevoli rappresentanti di Governo (Ministri, Sottosegretari) e della Democrazia Cristiana, ma negli anni Cinquanta per accedere alle scuole, laiche o religiose che fossero e per la loro frequenza, era indispensabile l”adesione al cattolicesimo o, per lo meno, era necessario nascondere i propri orientamenti politici, se non conformi o addirittura opposti a quelli della DC.

Lo stesso indirizzo impregnò per decenni la filosofia della leadership infermieristica (Federazione IPASVI) e solo la Consociazione IPASVI, coerentemente al suo Statuto, non fece distinzione di orientamento religioso o politico nella valorizzazione delle infermiere che erano al suo interno.

Intanto, negli anni Cinquanta e Sessanta, le allieve delle scuole per infermiere al di là della serietà formativa delle stesse, continuarono a costituire forza lavoro per gli ospedali e le infermiere, ad essere sottopagate in quanto donne e, all’inizio della carriera professionale, anche per essere minorenni, quando la maggiore età si raggiungeva a 21 anni: senza che alcuno, neppure tra le organizzazioni sindacali, quando il lavoro notturno era proibito alle donne e ai minori, si preoccupasse minimamente dei loro turni di notte, gravosi e stressanti, di dodici ore per un mese consecutivo e spesso anche oltre. Molte infermiere ebbero, col tempo, talvolta dopo pochi anni, problemi di salute legati all’eccessivo impegno psico-fisico e/o all’assenza di misure preventive e per alcuni decenni la mortalità infermieristica fu molto precoce, in senso statistico, tra quelle ospedaliere (6-7 anni in media). Ben diversa, ovviamente, la condizione di chi scelse, sino dall’inizio dell’attività professionale, attività ambulatoriali o simili.

Storie d’emigrazione e di lavoro duro

Negli stessi decenni l’arretratezza del Sud d’Italia s’ingigantiva con l’aggravamento delle condizioni dei braccianti agricoli, e fu proprio a partire dagli anni Cinquanta e in particolare negli ultimi anni del decennio, che centinaia di migliaia di giovani emigrarono verso il Centro e soprattutto a Nord-Ovest del Paese. All’inizio entrarono nel mercato del lavoro nel settore edile passando all’industria in un secondo tempo.

Le condizioni di vita erano misere e talvolta miserabili, dove chi non trovava ospitalità da parenti o amici, alloggiava in affitto in quattro o cinque per stanza e spesso anche molti di più. Chi non poteva permettersi neppure questo, “non poteva che scegliere tra le sale d’aspetto delle stazioni o gli scompartimenti vuoti dei treni. Un biglietto da cinquanta lire per una stazione vicina era in genere sufficiente per essere lasciati in pace, per tutta la notte, dalla polizia ferroviaria”.[3] Le condizioni di lavoro erano più pesanti di quelle della vita: orari prolungati, catena di montaggio e, talvolta, doppio lavoro serale; sicurezza ambientale minima e altissima la percentuale di infortuni, anche gravi e mortali, mentre le sostanze cancerogene colpivano irrimediabilmente in silenzio.

Il lavoro assumeva valore preponderante rispetto a quello della salute e assordante era al riguardo il silenzio di medici e di infermieri di fabbrica, mutualistici e ospedalieri, forse affetti anche da una sorta di cecità selettiva. Infatti, le lotte per il miglioramento delle condizioni degli ambienti di lavoro iniziarono alla fine degli anni Sessanta, sulla spinta degli stessi lavoratori dell’industria.

Nella commistione interculturale che si evinceva dalle parlate dialettali, l’emigrazione italiana varcava anche i confini nazionali e Svizzera, Germania, Belgio e pure la Svezia, introducevano questa massa di lavoratori nei loro cantieri, nelle loro miniere, nelle loro fabbriche.

A causa del mio percorso migratorio inverso, talvolta, sul mitico “Treno del sole”, condividevo con loro le ore notturne. Nella disastrata seconda classe, con scompartimenti sempre troppo caldi o troppo freddi, in carrozze gremite e puzzolenti, dove non c’era spazio neppure nei corridoi: seduti a terra o, meglio raggomitolati; loro appoggiati alle valige legate con lo spago ed io sul consueto zaino, ascoltavo le loro storie, non osando neppure lamentarmi per il fumo irritante di sigarette Nazionali (o arrotolate manualmente con il tabacco Marca Rossa) che ci avvolgeva, accompagnandoci per tutto il viaggio.

Effetti di guerra e cause sociali sulla salute fuori dal dibattito professionale

Sia nell’immediato dopoguerra che per alcuni decenni ancora, all’interno della comunità infermieristica italiana in senso lato (Collegi, Scuole…) il tema della guerra e delle sue conseguenze sulla salute e quello delle cause sociali di malattia, mai fu sfiorato.

Nonostante i numerosi conflitti in atto sul nostro pianeta e il rischio – sempre incombente – di guerre future, legate principalmente alla divisione del mondo in blocchi contrapposti sotto l’influenza, rispettivamente, di USA e URSS, le parole guerra e sociale vennero completamente rimosse.

Ad onta del richiamo dell’OMS che, nel suo preambolo costitutivo, affermava fino dal 1948 che “…la salute di tutti i popoli è la condizione fondamentale per la pace e la sicurezza…” in nessun programma di etica e deontologia, tranne in qualche isolata realtà formativa – giudicata talvolta da altri con ironia, malcelata sufficienza o addirittura insofferenza – comparvero questi termini, né i concetti fondamentali della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

L’attenzione della CRI si mantenne invece costante ai problemi della guerra ed è opportuno segnalare come di Direzione dei Servizi Sanitari, Sezione IP-ASV del Comitato Centrale, si preoccupasse di organizzare a Roma, dal 14 marzo al 28 aprile del 1960, un “Corso di aggiornamento culturale sulla difesa atomica-biologica-chimica per il personale appartenente alla carriera direttiva e di assistenza dell’Associazione stessa”.

Il corso non allettò molte infermiere, anzi, nonostante le lezioni fossero impartite da medici appartenenti alle alte gerarchie militari, tra i quali il ben noto igienista Vittorio Puntoni.

Durante il corso, a proposito della difesa atomica, una giovanissima infermiera, memore di quanto accaduto il 6 giugno 1945 a Hiroshima e poi a Nagasaki,[4] osservò, molto timidamente, che nell’area degli effetti nucleari, pure all’interno degli ospedali e colti all’improvviso dall’esplosione, si sarebbero trovati medici e infermieri, ma nessun commento dei relatori fece seguito a questo telegrafico intervento.

Ventiquattro anni dopo, al VII Congresso Nazionale della Federazione IPASVI, che si tenne a Rimini e avente per tema: “Quale infermiere per un progetto di salute”, fu presentata da quella stessa infermiera, in rappresentanza della Sezione Italiana della Lega Internazionale per i Diritti e la Liberazione dei Popoli[5], una comunicazione in cui, citando esclusivamente fonti ufficiali delle Agenzie dell’ONU (OMS, FAO, UNICEF, UNESCO), si invitavano le/gli infermiere/i di ogni religione e orientamento filosofico, ad unirsi in ambito nazionale e internazionale, al fine di adoprarsi e collaborare per prevenire la guerra. L’appello fu clamorosamente respinto, bloccato, sino dai primi concetti, con una rumorosa gazzarra degna delle peggiori sedute parlamentari. Da parte della Presidenza del Congresso, non vi fu cenno di adesione, né, tanto meno, un richiamo alla platea e l’invito a continuare l’intervento.

Due anni dopo, il Direttore Generale dell’OMS, invitava le infermiere dei quattro punti cardinali del mondo ad unirsi, per costituire il più imponente esercito atto a promuovere la salute, ovviamente considerata nel suo equilibrio psico-fisico e sociale.

Ancora negli anni Sessanta dall’Italia partivano i bastimenti per le rotte dell’emigrazione, molti verso l’Australia che costituiva la nuova terra promessa. Si trattava in prevalenza di giovani donne, anziani, bambini che raggiungevano gli uomini validi partiti anni prima: ora in navi vetuste e riabbellite, ma dove la terza classe era ancora costituita da cameroni affollati, all’altezza delle stive (e quindi spesso sotto il livello del mare in burrasca), dov’era costante il fetore del vomito e quello dell’odore acre della formalina. Talvolta, soprattutto nelle persone anziane, l’addio alla terra d’origine era straziante e anche l’impatto con una realtà così profondamente diversa, era spesso molto forte e doloroso.

L’esodo italiano (e di altri paesi dell’Europa mediterranea) proveniva in particolare dal Friuli e dalla Sicilia, ma anche Trieste, Genova e Napoli fornivano il loro contributo di umanità dolente e colma di speranza[6].

Pure per la Marina Mercantile Italiana valeva la gerarchia militare, dove solo un uomo (Infermiere generico) poteva essere capo infermiere, mentre i secondi, uomini e donne regolarmente immatricolati tra la “gente di mare”, facevano parte della bassa forza, a differenza delle infermiere su navi inglesi e di altri paesi che erano ufficiali e sottufficiali.

Solo la cultura, la disponibilità, l’orientamento educativo e preventivo, oltre alle capacità curative personali di infermieri/e delle navi italiane, consentivano di essere agenti di salute, in un ambito in cui valeva ancora il Regolamento 178/1897 e il R.D. 454/1898 per cui, “in caso di insufficienza o di impedimento durante il viaggio …”dovevano “ essere identificate altre persone capaci di coadiuvare e sostituire gli infermieri”.[7]

Globalizzazione e divario Nord/Sud

Oggi il panorama mondiale è peggiorato e paure che si riteneva essere degli altri, lontani, ci toccano da vicino, ci fanno sentire esposti e indifesi, aumentando pregiudizi e aggressività.

Troppe ancora sono le realtà ove alle genti è negato l’equilibrio della salute, che nasce in primo luogo dal riconoscimento effettivo del diritto ad averlo. I processi di globalizzazione volti a concentrare in mano a pochi la gestione delle risorse indispensabili alla vita e alla salute, quella idrica primaria rispetto a quelle energetiche petrolifere, possono solo allargare il profondo divario già esistente tra il mondo ricco e quello povero, pure all’interno dello stesso mondo occidentale.

Basti pensare al numero di bambini, corrispondente a circa due milioni, che muoiono ogni anno a causa di malattie connesse alla mancata disponibilità dell’acqua, e, per contro, allo spreco di questa fonte essenziale di vita che si compie quotidianamente nell’occidente consumistico, per non parlare dell’inquinamento esponenziale di fiumi e di mari. Ma il numero di persone che nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile è di oltre 1,4 miliardi. La “sacralità” dell’acqua, riconosciuta con il compimento di riti lacustri dai nostri più antichi progenitori del Paleolitico, tramandati sino alle epoche storiche, sta subendo in modo crescente il “sacrilegio” della privatizzazione: quanto è lontana e avveniristica la Nightingale che, per uno sviluppo sostenibile, assieme alla terra, ne richiedeva la fruibilità per i contadini poveri!

Crescono gli integralismi – distruttivi e disumani – da qualsiasi fonte siano alimentati, da qualunque cultura essi vengano prodotti e disseminati, ovunque pongano radici e non importa quali siano gli strumenti di morte utilizzati.

Quasi a voler contrastare e fermare la crescente presa di coscienza di pacifici cittadini, violenze e terrorismi nostrani, radicali e irriducibili, lievitano all’aperto di campi di calcio e nella clandestinità che appariva spenta ma era solo sopita.

Intanto, la femminilità della Grande Guerra oggi si insinua sempre di più nel mondo del mercato globale e consumistico e in quello della pubblicità che lo sostiene: entrambi, nell’appropriazione e nell’esibizione del corpo femminile nella sua espressione erotica, offrono “l’universo delle merci come universo di prostituzione”, là dove la sessualità, spento il fascino del nascosto, diventa spesso crudele. E cinica, sino alla riduzione della modella adulta in modella bambina provocante e sessualmente attraente, nello stesso periodo in cui ci si accorge che l’abuso sessuale a danno di bambini dei paesi in via di sviluppo, in particolare del Sud-Est Asiatico e dell’America Latina e di alcune regioni africane, da parte di turisti occidentali annoiati, dagli schermi dei computer si è materializzato nelle nostre contrade.

Non è certo la sessualità scomposta, talvolta brutale dei corpi nudi che deve far riflettere o/e indignare, ma la “ripetizione monotona e prolungata di questa esposizione, dove un corpo senza volto si offre con le cadenze ossessive di uno spasmo che ha più parentela con i ritmi della morte che con quelli del desiderio[8], dove l’alleanza tra Eros e Tanatos si manifesta con violenza, in un mondo in cui il soddisfacimento del bisogno sessuale, affermati quelli vitali, sembra cercare e trovare risposta nella soddisfazione delle armi.

Mi hanno profondamente scossa le macerie che accanto a noi, ad Oriente o a Sud dell’Italia o, per la prima volta negli USA, hanno seppellito vite umane, così come gli altri innumerevoli crimini di guerra e di pace che in un colpo solo hanno ucciso migliaia di persone, come a Bhopal (India), invalidandone altrettante. Ma al pari di queste sciagure, mi ha sconvolta la prima giovane donna palestinese che si è fatta esplodere nel disperato tentativo di seminare morte,

Era un’infermiera, laureata, cresciuta professionalmente seguendo le linee.guida del Nursing anglofono e studiando le stesse teoriche e le teorie corrispondenti, che costituiscono il patrimonio della nostra cultura infermieristica.

Intanto anche oggi, come venti, dieci anni fa, quando è il caso, si scatenano guerre legittime, o alle quali si assiste deprecando o che si tollerano-sostengono con il loro stillicidio di morti inutili…”perfino la letteratura medica, con la sua ufficialità, non riesce ad essere impermeabile a questa <altra faccia> di una civiltà che proclama sempre più che il diritto alla vita appartiene solo a quelli che hanno il privilegio: gli articoli sulle guerre e sui loro morti da bombe, fame, malattie di ritorno – diventano sempre più frequenti (nelle principali riviste mediche), anche se smussano la loro eresia nello stile formale richiesto per gli articolo <scientifici>. [9]

Eppure, scienza e ricerca ed esperienze guidate stanno acquisendo sempre più importanza anche nel nostro ambito assistenziale, che è però ancora troppo chiuso al sociale e alla transculturalità, escludendoli quindi, in linea generale, dall’universo dei valori professionali.

Pure tra i giovani infermieri usciti dalle Università, ben pochi sono orientati in tal senso, e solo nel caso di aver trovato sul loro percorso formativo docenti infermieri e dirigenti sensibili e preparati anche in questi campi di ricerca, capaci di inserirsi scientificamente nei programmi che, all’origine, tacciono su concetti fondamentali per essere e per saper essere.

Inoltre, sebbene in minoranza, non tutti i professionisti seguono la strada infermieristica con rigore, cosa ben diversa dalla rigidità a cui qualcuno, per mostrarsi virtualmente democratico, tende ad assimilarvi il primo per negarlo ed evitare così percorsi indubbiamente faticosi e impegnativi: che impongono il rigore in primo luogo a se stessi. Non mi riferisco solo all’accettazione del comparaggio, perché quanto sopra accade in talune realtà a iniziare dal processo bidirezionale della formazione, teorica e pratica.

Vi sono talvolta studenti e docenti/dirigenti infermieri che, alla scelta e all’accettazione della guida consapevole alla scienza, all’uso della tecnologia, alla deontologia e alla democrazia – che certamente impongono sacrificio e coerenza all’una e all’altra componente – preferiscono, da un lato, le scorciatoie dell’ossequio servile e viscido, dall’altro l’imposizione ricattatoria e il paternalismo nepotistico di chi ama circondarsi di acritico consenso.

In entrambi ancora, a volte, prevale la scelta di percorsi furbeschi delle copiature nascoste, se non addirittura del plagio, del boicottaggio unito alla denigrazione e/o alla negazione del lavoro frutto della ricerca e dell’esperienza altrui: salvo poi servirsene sotto le mentite spoglie di una presunta originalità.

Non è certo l’atteggiamento prevalente, però tutte le forze sane della professione – e sono molte – debbono unirsi per lottare insieme, lealmente, in modo evidente, al fine di rimuovere, al pari di una efficace azione di disinfezione, il malcostume che può essere fonte di contagio. Anziché sviluppare – come talvolta accade, l’intrecciarsi di cordate, finalizzate a prevalere sulla parte avversa e emarginante, in cui assume valore l’interesse individuale a scapito di quello collettivo.

L’evoluzione professionale: etica, scientifica, operativa e sociale delle nuove generazioni, sarà inevitabilmente, come in passato, speculare ai modelli preposti e alle alleanze privilegiate: sta a noi scegliere quali voler trasmettere e diffondere.

Vorrei qui riferire altri contenuti, scaturiti dalla ricerca, dall’esperienza e dalla valutazione che ne è seguita, ma il tempo ferma lo scorrere dei pensieri riprodotti graficamente:

Mentre scrivo, una sofisticatissima tecnologia, capace di guidare attraverso lo spazio sette vite umane con la forza straordinaria della sua intelligenza artificiale, sicura e infallibile, giace per 70 Km. di questa Terra, sparsa in rottami e in brandelli umani. Il mio pensiero ricorre inevitabilmente alla stessa intelligenza che anima e guida le bombe dei nostri giorni e che intelletti superiori sperimentano, ben lontano dai luoghi di produzione, l’effetto della loro presunta infallibilità.

Intanto l’uranio impoverito, molto meno intelligente delle bombe che lo generano, sciocco e incauto affiora da un mare di menzogne per mescolarsi tra la folla degli interventi umanitari, reali e virtuali. E le aberrazioni genetiche e mortali della scienza e della tecnologia, che sembrano sorte dalla avveniristica fecondazione di un mouse volto al femminile ad opera di un nanochip distruttivo, oggi devono però vincere la concorrenza di elementi gassosi nati da amplessi chimici di tempi antichi, e di

Foto Matteo Forni

eserciti di virus e di batteri prodotti e riprodotti naturalmente e volti a compiere più facilmente di ingombranti e visibili strumenti di distruzione, silenziosi e inodori viaggi in incognito.

Allora, parafrasando Malliani[10], chiudo questo scritto nell’affermare, con profonda convinzione, che è giunto il momento di acquisire la consapevolezza che gli infermieri “che hanno la (cor)responsabilità della vita dei loro pazienti e della salute della comunità, devono iniziare a esplorare una nuova provincia della medicina preventiva (…) la prevenzione della guerra poiché l’ultima epidemia – la guerra nucleare (e quella biologica e chimica, n.d.r.) non può essere curata, ma solo prevenuta”

E’ dato all’uomo/di morire una volta sola/ e poi il giudizio! Una finale trasparenza e luce,/ la trasparenza degli eventi, /la trasparenza delle coscienze.

Karol Woityla (Epilogo)

Bibliografia essenziale

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Aloi D. Mellana C. (a cura di) – I colori del bianco. Immagini e ritratti della professione. Collegi IPASV : AL, AT, CN, VC, TO 1993.

Artioli G. – Evoluzione storica dell’assistenza e della formazione infermieristica. Area Qualità, MI, 2000.

Boni N., Pelizzoli V., Spairani C. – ANIN, 20 anni. Questa storia non la inventarono altri. ANIN, PV, 1995.

Cosmacini G. – Storia della medicina e della sanità in Italia. Laterza, Roma-Bari, 1987.

Dimonte V. – Da servente a infermiere. CESPI, TO, 1993.

Fiumi A. – Infermieri e Ospedale. Storia della Professione tra Ottocento e Novecento. Nettuno, VR, 1993.

Manzoni E. – Storia e filosofia dell’Assistenza infermieristica. Masson, MI, 1997.

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Passera O. – Assistenza Infermieristica. Storia sociale. Ambrosiana, MI, 1993.

Siccardi M. – Viaggio nella notte di San Giovanni. Alla ricerca delle origini dell’assistenza infermieristica. Rosini, FI, 1993 (CISO, RE, 1978).

Sironi C. – Storia dell’Assistenza infermieristica. NIS, Roma, 1991. – (a cura di) Associazione Regionale Lombardia Infermiere/i, 50 anni di storia 1946-1996. ARLI, MI, 1997.

[1] Palmiro Togliatti, discorso pronunciato a conclusione dei lavori della II Conferenza Nazionale delle donne comuniste. Roma, 20-23 ottobre 1955.

[2] Ivi, discorso pronunciato alla Conferenza femminile del PCI , Roma 2-5 giugno 1945.

[3] G.Fofi. L’immigrazione meridionale a Torino, Milano 1964 pag.78. Cit, da Paul Ginsborg, Storia d’Italia 1943-1996, Einaudi,TO, 1998 pag. 266-267.

[4] Bombardamenti atomici inutili per vincere il Giappone,ormai sconfitto e allo stremo, costituirono in realtà una sorta di intervento preventivo, finalizzata a dimostrare all’URSS la potenza bellica USA, in grado di fermare subito qualsiasi eventuale atto espansionistico dell’altra potenza.

[5] Rimini,17-19 maggio 1984 – M.Siccardi LIDLP : “ Una salute di pace per tutti”. LIDPL: organizzazione non governativa per i Diritti Umani riconosciuta dall’ONU. A favore dell’intervento scrissero: Padre Alex Zanotelli, direttore di Nigrizia e Mons. Luigi Liegro, Presidente della Caritas Italiana. Un successivo invito scritto rivolto dalla relatrice alla Federazione IPASVI, alla FIARO, alla CNAIOS, mai ebbe risposta alcuna.

[6] Il film di Zampa, del 1971 Bello,onesto,emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata interpretato da Alberto Sordi e Claudia Cardinale, riproponeva solo una parte della dura realtà di cui sono stata a suo tempo testimone.

[7] Cfr. Marisa Siccardi. Il lavoro delle infermiere di bordo in Italia in: Bollettino di informazione della Consociazione Nazionale Infermiere Professionali e Assistenti Sanitarie Visitatrici, Roma, maggio 1961, n.5 pagg.13-15.

[8] Cfr. Umberto Galimberti. Corpi svenduti in : D, La Repubblica,1 marzo 2003

[9] Cfr. Gianni Tognoni, Post-fazione, in : Marisa Siccardi, Viaggio , cit, pag, 236.

[10] A.Malliani; Introduzione a: L’ultimo aiuto, Mazzotta, MI, 1983, cit. da G. Cosmacini in: Storia, op. cit., pag. 426-427.